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Le Sezioni Unite si pronunciano sulla natura giuridica della comunione de residuo

La Corte di Cassazione Sez. Unite con la Sentenza n. 15889 del 17/5/2022 (.PDF) ha stabilito che, nel caso di scioglimento della comunione legale, i beni ricompresi nell’azienda costituita dopo il matrimonio da uno solo dei coniugi entrano a far parte della cd. “comunione de residuo”, che attribuisce all’altro coniuge non un diritto reale sulla quota di metà dei beni stessi bensì un mero diritto di credito, pari alla metà del valore dell’azienda stessa determinato al momento della cessazione del regime patrimoniale legale e al netto delle eventuali passività esistenti alla medesima data.

La vicenda

Due coniugi si trovano in regime di comunione legale dei beni. Dopo il matrimonio il marito inizia la gestione di un’impresa individuale artigiana.

Successivamente, con atti notarili distinti, il marito acquista terreni edificabili e la moglie interviene per dichiarare che quanto acquistato dal marito non rientra nella comunione legale dei beni, in quanto necessario per l’esercizio della professione del coniuge ai sensi dell’art. 179 lettera d) c.c.

Solo nell’ultimo atto viene specificato che l’immobile è acquistato da entrambi i coniugi in regime di comunione legale dei beni.

 

Interviene la separazione giudiziale e la moglie inizia una causa nei confronti del marito per rivendicare la proprietà della quota di metà di tutti i beni acquistati dallo stesso in costanza di matrimonio.

Nel corso del giudizio la moglie sostiene l’erroneità della dichiarazione dalla stessa resa negli atti notarili e l’applicabilità pertanto dell’art. 178 c.c., con la conseguenza che, essendo intervenuto lo scioglimento della comunione per effetto della separazione, i beni sono divenuti per metà di proprietà della stessa.

Infatti l’art. 178 c.c. stabilisce che i beni destinati all’esercizio dell’impresa di uno dei coniugi in regime di comunione legale costituita dopo il matrimonio e gli incrementi dell’impresa costituita anche precedentemente “si considerano oggetto della comunione” solo se sussistono al momento dello scioglimento della comunione stessa.

Il Tribunale di Cagliari con la sentenza n. 51/04 ND rep. 42/2004 stabilisce che i beni acquistati dal marito non possono essere considerati beni personali ai sensi dell’art. 179 lettera d), non essendo destinati all’esercizio della professione bensì all’esercizio dell’attività d’impresa del marito costituita dopo il matrimonio: pertanto gli stessi, trovandosi ancora nel patrimonio del marito al momento dello scioglimento della comunione, sono entrati a far parte della comunione “de residuo” ex art. 178 c.c., così come gli altri beni costituenti l’azienda e devono “essere divisi in quote eguali fra i coniugi”. Il Tribunale riconosce inoltre la natura meramente ricognitiva della dichiarazione del coniuge non intestatario, escludendo la natura negoziale della stessa.

Lo stesso Tribunale con successiva sentenza n. 2414/2007 ND rep. 2795 stabilisce che i fabbricati edificati in costanza di matrimonio sui predetti terreni intestati al solo marito sono divenuti di proprietà dello stesso per il principio dell’accessione e pertanto non ricadono nella comunione legale “immediata” bensì in quella “de residuo” analogamente al suolo su cui erano stati edificati, escludendo anche un rimborso a favore del marito degli oneri di costruzione.

La Corte d’Appello di Cagliari sez I, con la sentenza 557 del 25/6/2019 conferma la natura ricognitiva/confessoria della dichiarazione resa dal coniuge non acquirente in sede di acquisto compiuto dall’altro coniuge, mentre in parziale riforma della sentenza di primo grado, riconosce la natura di mero diritto di credito alla posizione giuridica del coniuge non imprenditore in relazione ai beni ricadenti nella “comunione de residuo”.

A seguito di ricorso in Cassazione la Seconda Sezione Civile, con ordinanza interlocutoria n. 28872 del 19/10/2021 rinvia la causa al Presidente al fine di valutare l’opportunità di rimettere la questione di particolare importanza alle Sezioni Unite. Nel provvedimento vengono riassunte le posizioni della dottrina che sostiene la tesi della natura reale del diritto del coniuge non intestatario basandosi sul tenore letterale dell’art. 178 c.c. (che usa l’espressione “si considerano oggetto della comunione” che rappresenterebbe la volontà del legislatore di sottoporre la comunione residuale d’impresa ad un regime normativo diverso da quello della comunione residuale non d’impresa) e la tesi della natura obbligatoria basata su ragioni pragmatiche di tutela dei terzi.

Posizioni di dottrina e giurisprudenza antecedenti alla sentenza a Sezioni Unite

Fin dall’introduzione dell’istituto della comunione legale, la dottrina è divisa sulla natura della c.d. comunione de residuo disciplinata dagli artt. 177 lett. b) c) e 178 c.c.

Una parte degli studiosi, valorizzando la formulazione letterale ed esigenze di coerenza sistematica, ritiene che, allo scioglimento della comunione legale, i beni divengano oggetto di comunione ordinaria tra i coniugi; l’opposto (e maggioritario) indirizzo enfatizza invece gli inconvenienti che derivano dalla prima impostazione, ritenendo che il venir meno del regime legale farebbe sorgere un mero diritto di credito pari alla metà del valore dei beni, senza alcun effetto sulla titolarità degli stessi.

1 NOTA

Tra i primi autori, si consideri, per esempio, DOGLIOTTI (L’oggetto della comunione legale tra coniugi: beni in comunione de residuo e beni personali, in Fam. Dir., 1996, 4, 387) e AULETTA (Il diritto di famiglia, Torino, 2002, 128), secondo il quale la creazione di una contitolarità, riguardo ai cespiti patrimoniali acquisiti dal coniuge durante il matrimonio, è volta a tutelare in maniera intensa il coniuge più debole, il che si rende ancor più necessario quando, a causa della crisi matrimoniale, i suoi interessi vengono posti maggiormente in pericolo.  Nello stesso senso CANNAVALE, Comunione legale e impresa individuale di uno dei coniugi (o impresa gestita da uno dei coniugi in forma di società di persone), in Vita Not., 1997, 485; DE RUBERTIS, Comunione legale di azienda e società di fatto, in Vita Not., 1979, 181.

Quanto al secondo indirizzo, BUSNELLI (La comunione legale nel diritto di famiglia riformato, in Riv. Not., 1976, 36) evidenzia l’inopportunità di dare incremento ai rapporti patrimoniali tra coniugi proprio al momento dello scioglimento della comunione, scioglimento generalmente determinato da una situazione di crisi coniugale.  Tale incremento, peraltro, si tradurrebbe in una compressione della libertà d’impresa, laddove la tesi del diritto di credito assicura invece autonomia all’imprenditore nella gestione dei beni aziendali (nello steso senso BENANTI, Beni destinati all’esercizio dell’impresa di un coniuge in comunione dei beni e strumenti di tutela dei terzi, in Nuova Giur. Civ., 2016, 10, 1379).

La tesi del diritto di credito è condivisa anche, fra gli altri, da FALCIONI, Il coniuge imprenditore individuale, in Riv. Not., 1997, 1184; RIMINI, Acquisto immediato e differito nella comunione legale tra coniugi, Padova, 2001, 83; SCHLESINGER, Della comunione legale, in Commentario al diritto italiano della famiglia, a cura di Cian, Oppo e Trabucchi, III, Milano 1992, 144; TRIMARCHI, Le imprese dei coniugi, in Tratt. Perlingieri, Napoli, 2009, V, 15, 100.

La dottrina appare altresì divisa sulla diversa questione dei presupposti di applicazione dell’art. 178 c.c., questione rilevante al fine di valutare gli inconvenienti della tesi della natura reale sul piano della pubblicità e della certezza del diritto.

Un primo orientamento ritiene che l’esclusione dalla comunione immediata ai sensi dell’art. 178 c.c. presupponga unicamente la oggettiva destinazione del bene acquistato al servizio dell’impresa. Secondo un diverso orientamento, invece, a tale fine sono richiesti l’intervento in atto del coniuge non imprenditore nelle forme di cui all’art. 179 comma secondo, c.c. e la pubblicità di cui all’art. 2647, comma secondo, c.c.

2 NOTA

Nell’ambito del primo orientamento – più aderente alla lettera del codice e maggioritario in giurisprudenza – non mancano autori che valutano in termini positivi la diffusa prassi notarile che, pur non ritenendolo a rigore necessario, considera opportuno l’intervento in atto del coniuge non intestatario (per tutti: TONDO, Sull’impresa di uno dei coniugi, in Riv. Not., 1980, 1505).

Per il secondo e più rigoroso orientamento si segnalano i contributi di BARALIS-BARONE (Impresa individuale, associazione in partecipazione e società, in relazione alla comunione legale dei beni, Riv. Not., 1989, 1424 e 1484) e di BARASSI (La posizione del venditore nelle operazioni immobiliari alla luce del nuovo regime patrimoniale tra coniugi, in Diritto di famiglia, società, contrattazione immobiliare, Milano, 1978, 106).

Quanto alla giurisprudenza sulla natura della comunione de residuo, si segnalano pochi arresti di merito, tutti orientati nel senso del diritto di credito, insieme a precedenti di legittimità di segno contrastante.

3 NOTA

Per la giurisprudenza di merito si vedano Trib. Camerino, 5 agosto 1988, Tribunale di Grosseto, 28 ottobre 2016 e Corte d’Appello di Lecce, 28 maggio 2014, la quale richiama la libertà d’impresa (“annettere alla norma richiamata effetti diversi da quello di un mero diritto di credito equivarrebbe a suscitare seri sospetti di illegittimità costituzionale dell’art. 178 c.c., alla stregua proprio di quel parametro costituzionale della libertà d’iniziativa economica richiamato dalla Suprema Corte per enucleare le ragioni legislative poste alla base della disciplina dei beni destinati all’impresa individuale nella comunione”).

Per la giurisprudenza di legittimità, il medesimo orientamento appare espresso in Cassazione civile sez. VI, 21/02/2018, n.4186, Cassazione civile sez. I, 20/03/2013, n.6876, Cassazione civile sez. trib., 09/05/2007, n.10608, Cassazione civile sez. I, 21/05/1997, n.4533, Cassazione civile sez. I, 29/11/1986, n.7060, la quale contiene la motivazione più articolata sul punto: proprio in considerazione del maggiore valore che di regola hanno i beni destinati ad un’impresa, è stabilito che tali beni non siano “personali” del coniuge, bensì formano oggetto della comunione de residuo, il che significa che, allo scioglimento della comunione, del valore di essi si dovrà tener conto in accredito al coniuge non imprenditore. Con questa disciplina si è cercato di contemperare le due esigenze. Inquadrando i beni così acquistati nella categoria dei beni oggetto della comunione de residuo, si soddisfa, seppure parzialmente l’esigenza di tutelare l’altro coniuge al quale è riservata l’aspettativa in ordine a quei beni quando la comunione sarà sciolta. Si soddisfa d’altra parte l’esigenza fondamentale dell’imprenditore di potere fare scelte soltanto sue negli acquisti e di disporre liberamente dei beni così acquistati e destinati: è infatti sufficiente il regime di comunione de residuo per attribuire al coniuge la libera disponibilità di questi beni. D’altronde, a questo modo, sono meglio tutelati i creditori dell’imprenditore, i quali sanno di potere contra su tutti i beni che risultano intestati all’imprenditore e facenti parte dell’azienda”. Tale precedente è richiamato da Cassazione penale sez. III, 10/11/2010, n.42182, in tema di confisca per l’intero di beni acquistati ex art. 178 c.c.

Nel senso della natura reale della comunione de residuo si possono invece menzionare i seguenti arresti: Cassazione civile sez. I, 03/07/2015, n.13760, Cassazione civile sez. I, 14/04/2004, n.7060, e, con riferimento ai depositi in conto corrente, Cassazione civile sez. trib., 23/02/2011, n.4393 e Cassazione civile sez. trib., 16/07/2008, n.19567.

Sulla diversa (ma connessa) questione dei presupposti di applicazione dell’art. 178 c.c., l’orientamento assolutamente maggioritario è nel senso di ritenere sufficiente la destinazione del bene al servizio dell’impresa, escludendo l’applicabilità dell’art. 179, comma secondo, c.c. e, conseguentemente, dell’art. 2647 c.c.

In tal senso, ad esempio, la già menzionata Cassazione civile sez. I, 29/11/1986, n.7060, la quale precisa che “la mancanza di un sistema di pubblicità ex art. 2643 segg. cod. civ. non esclude che eventuali conflitti si possano risolvere sulla base di altri principi. In particolare, stipulato e trascritto un acquisto di beni immobili da parte di un soggetto coniugato, la questione se quel bene appartiene alla comunione attuale o de residuo andrà risolta accertandosi se quell’acquirente era imprenditore e se quel bene da lui acquistato è stato destinato alla sua impresa. In funzione di tale accertamento varranno i normali criteri circa l’onere della prova”. Nello stesso senso, fra le altre, Cassazione civile sez. I, 19/09/2005, n.18456 e, per la giurisprudenza di merito, Tribunale Monza, 14/11/1988 e Tribunale Piacenza, 09/04/1991. In senso contrario, si veda App. Bologna 27 gennaio 1986, in Dir. Fam., 1986, 573.

La sentenza della Cassazione a Sezioni Unite

La Cassazione nella sentenza in commento riconosce che la natura giuridica della comunione de residuo è una questione ancora priva di una risposta soddisfacente da parte della Corte stessa e che lo sviluppo cronologico delle decisioni della giurisprudenza in materia ad oggi non è tale da consentire una “evoluzione consapevole verso l’una o l’altra soluzione”.

Nell’impianto generale della comunione legale il legislatore ha voluto tutelare anche l’autonomia del singolo coniuge nell’esercizio delle proprie attività professionali o imprenditoriali.

Accanto ai beni che ricadono nella comunione immediata e quindi entrano nel patrimonio comune al momento del loro acquisto, i beni che ricadono nella comunione “de residuo” restano personali durante la vigenza del regime patrimoniale legale e sono attratti alla disciplina della comunione legale solo se sussistenti al momento dello scioglimento della comunione stessa; quindi l’instaurazione di una situazione di comunione de residuo è configurata nel sistema della riforma come evento incerto nell‘an e nel quantum poiché riguarda esclusivamente i beni che residuano alla cessazione del regime patrimoniale legale.

La Corte prosegue con il raffronto fra l’art. 178 c.c. e 177 comma 1 lettera d) e ultimo comma dello stesso art. 177 c.c. ed evidenzia che, con riferimento all’azienda, l’elemento scriminante è rappresentato dalla gestione comune ovvero individuale della stessa.

Finché perdura la comunione legale il legislatore ha voluto garantire al coniuge imprenditore il potere esclusivo di gestione dell’impresa con la facoltà di disporre nel modo più libero dei beni e utili aziendali.

I beni oggetto della comunione de residuo non possono considerarsi comuni almeno fino a quando non sia intervenuta una causa di scioglimento del regime legale, “non rilevando a tal fine la sola cessazione della destinazione dei beni all’impresa o il venir meno della qualità di imprenditore in capo al coniuge”.

Viene definitivamente chiarito, se mai ve ne fosse la necessità, che l’art. 178 quando prevede la “cessazione di questa” si riferisce alla comunione dei beni e non all’azienda.

Vengono sottolineate le gravi problematiche che sorgerebbero se si aderisse alla tesi che considera il diritto dell’altro coniuge sui beni caduti nella comunione de residuo come un diritto reale.

I creditori dell’imprenditore, al momento dello scioglimento della comunione, subirebbero una diminuzione della propria garanzia patrimoniale sui beni ricadenti nella comunione de residuo che per metà apparterrebbero all’altro coniuge.

Nel caso di morte del coniuge non imprenditore, seguendo la tesi della comunione immediata, si verrebbe a creare sui beni di cui all’art. 178 C.C. la comunione (ordinaria) fra il coniuge imprenditore e gli eredi del coniuge non imprenditore che potrebbero essere anche estranei al nucleo familiare.

Gli stessi sostenitori della tesi della natura reale del diritto relativo alla comunione de residuo sono costretti a temperare detto assunto e ritengono infatti che il diritto dell’altro coniuge sorga sul “saldo attivo del patrimonio aziendale”, ma con ciò si arriverebbe all’assurdo per cui delle passività risponda anche il coniuge non imprenditore.

La Corte pertanto sposa in toto la tesi della natura creditizia del diritto nascente dalla comunione de residuo che attribuisce al coniuge non imprenditore, al momento dello scioglimento della comunione, un diritto di credito pari “alla metà dell’ammontare del denaro o dei frutti oggetto di comunione de residuo ovvero del controvalore dei beni aziendali e degli eventuali incrementi, al netto delle passività”.

L’affermazione della natura obbligatoria del diritto spettante al coniuge non imprenditore comporta che tale credito possa subire il concorso con i creditori anche successivi del coniuge imprenditore, non avendo detto credito un carattere privilegiato; eventuali esigenze del coniuge non imprenditore di tutelare il proprio diritto di credito possono essere perseguite mediante misure cautelari, come la richiesta di sequestro conservativo ricorrendone i presupposti.

La ricostruzione della sentenza in esame appare pienamente condivisibile in quanto contempera le esigenze di tutela del coniuge non imprenditore con l’autonomia di gestione del titolare dell’impresa e la posizione dei terzi creditori di quest’ultimo in relazione ai beni facenti parte dell’azienda intestati al solo coniuge imprenditore.

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