La Corte di Cassazione con sentenza 30983 del 7 novembre 2023 si è pronunciata per la prima volta sulla (non) imponibilità, ai fini dell’imposta di registro, della clausola penale.
La decisione in commento chirurgicamente smonta le tesi dell’Agenzia delle Entrate, già ripetutamente ritenute infondate dalla giurisprudenza di merito, ritenendo la natura accessoria della penale che “non può ritenersi eterogenea rispetto all’obbligazione nascente dal contratto”e affermando il seguente principio di diritto: “ai fini di cui all’art. 21 del d.P.R 131/86 la clausola penale (nella specie inserita in un contratto di locazione non è soggetta a distinta imposta di registro, in quanto sottoposta alla regola dell’imposizione della disposizione più onerosa prevista dal secondo comma della norma citata”.
Della questione, su questa rivista, si era già occupata Chiara Grazioli il 21 aprile 2021, mentre il 24 dicembre dello stesso anno avevamo pubblicato una decisione della CTP di Pesaro che, pronunciandosi su un ricorso presentato da Massimo Caccavale, condannava alle spese l’Agenzia delle Entrate. Dall’articolo di Chiara Grazioli potete scaricare alcuni esempi di ricorsi da utilizzare per resistere alle pretese dell’AE.
Più autorevolmente, sul Sole 24 ore del 15 novembre 2023, il prof. Enrico De Mita, nel commentare la recente decisione ha evidenziato come la vicenda dei recuperi di imposta fissa sulle clausole penali concretasse un caso di denegata giustizia ponendo il contribuente nell’alternativa tra “ricorrere, vincere e pagare le spese legali superiori al valore della controversia, e pagare indebitamente l’avviso di liquidazione bagatellare”.
Se è vero l’adagio “che a pensar male si fa peccato, ma spesso si indovina” bisogna anche senza pudore evidenziare come negli ultimi anni, nel campo delle imposte indirette, l’attività di accertamento dell’Agenzia delle entrate si sia spostata dai “grandi accertamenti” al recupero di cervellotiche imposte fisse, confidando sulla rinuncia a difendersi avanti ai giudici tributari in ragione dei costi di difesa (sovente non sufficientemente tutelati dalla condanna alle spese) che si riassumono in un “non ne vale la pena”.
Ragionamenti che non dovrebbero valere per il notaio, pubblico ufficiale e responsabile di imposta, al quale il prof. De Mita ricorda che “Rinunciare a difendersi a difendersi proprio per l’onerosità della difesa legale di cui si rimane definitivamente incisi, soprattutto in casi di importi minimi della pretesa fiscale, viola l’articolo 3 e l’articolo 24 della Costituzione”.
È quindi dovere del notaio, intrinsecamente collegato alla sua funzione, difendere il cittadino/cliente/contribuente (ma anche se stesso responsabile di imposta) dalle illegittime pretese del fisco.
Magari cominciando da quelle pretese la cui cervelloticità è resa ancor più evidente dall’essere contrarie alla direzione “politica” indicata dal legislatore.
Combattendo contro la moltiplicazione delle imposte fisse dei contratti preliminari TAIC che il legislatore impone a tutela del consumatore che non deve, in ragione della sua protezione, essere costretto a pagamenti ulteriori rispetto a quelli dell’imposta fissa.
Non versando i maggiori contributi previdenziali e la maggiore tassa archivio richiesta dagli Archivi Notarili per i pochi atti Under 36 rimasti da stipulare prime di fine anno e dei quali Cesare Licini, poche settimane fa su questa rivista, ha evidenziato l’illegittimità della pretesa.
L’articolo Suprema Corte, clausola penale e funzione notarile sembra essere il primo su Federnotizie.