Premessa generale
Il tema della circolazione delle partecipazioni sociali non può essere oggetto di una trattazione unitaria, in quanto il Codice civile prende discipline ben diverse sul punto, in relazione ai differenti tipi sociali.
In termini generali, una summa divisio può essere posta tra società di persone e società di capitali, affermando che, nelle prime, il trasferimento inter vivos o mortis causa, delle partecipazioni comporta una modifica dei patti sociali e, pertanto, non può prescindere dal consenso negoziale di tutti i soci; nelle società di capitali, viceversa, la regola generale è quella della libera trasferibilità delle partecipazioni, sia con atto tra vivi che a causa di morte.
Tuttavia, tutte le norme codicistiche da cui emerge il regime di circolazione delle partecipazioni hanno carattere dispositivo, potendo, quindi, essere derogate per volontà dei soci, tramite inserimento di apposite clausole nei patti sociali (società di persone) o nello statuto (società di capitali).
Naturalmente, stante l’opposta disciplina legale, opposto sarà anche il contenuto delle deroghe convenzionali, volte, nelle società di persone, a liberalizzare la circolazione delle partecipazioni (clausole di trasferibilità a maggioranza, di libera trasferibilità, etc.) e, nelle società di capitali, a limitare, o ad escludere, il trasferimento delle quote o azioni. Il presente contributo, dedicato ai divieti di trasferimento delle partecipazioni sociali, dunque, si concentrerà esclusivamente sulla disciplina delle società di capitali.
I divieti legali di trasferimento della partecipazione
Sebbene, come sopra detto, nelle società di capitali la regola generale sia quella della libera trasferibilità delle partecipazioni, la disciplina delle società per azioni, applicabile anche alle società in accomandita per azioni (cfr. art. 2454 del Codice civile), prevede tre specifiche ipotesi in cui le azioni non possono essere cedute.
In primo luogo, nell’ambito della disciplina dei conferimenti in natura, e, nello specifico, dopo avere sancito l’obbligo degli amministratori di controllare le perizie di stima del conferimento fornite dal socio, l’art. 2343, comma 2, secondo periodo del Codice civile dispone che “fino a quando le valutazioni non sono state controllate, le azioni corrispondenti ai conferimenti in natura sono inalienabili e devono restare depositate presso la società”.
In secondo luogo, ai sensi dell’art. 2437-bis comma 2 del Codice civile, “le azioni per le quali è esercitato il diritto di recesso non possono essere cedute e devono essere depositate presso la sede sociale”.
Questi due divieti di trasferimento, tuttavia, si precisa che operano solamente con riguardo ai trasferimenti per atto tra vivi, mentre non impediscono la caduta in successione delle azioni, qualora la successione del socio si apra prima del controllo della stima del valore del conferimento in natura, ovvero prima della liquidazione delle azioni per cui è stato esercitato il diritto di recesso.
Invero, il Codice civile prevede una sola ipotesi in cui, per legge, le azioni non possono circolare né inter vivos né mortis causa, ed è il caso delle azioni con prestazioni accessorie, che sono sempre inalienabili senza il consenso degli amministratori (così l’art. 2345 comma e del Codice civile, ai sensi del quale “le azioni alle quali è connesso l’obbligo delle prestazioni anzidette devono essere nominative e non sono trasferibili senza il consenso degli amministratori”), in quanto, in presenza di prestazioni accessorie, è necessario il vaglio dell’organo amministrativo in relazione all’idoneità dell’acquirente ad adempiere le prestazioni accessorie. Non a caso, infatti, il citato art. 2345 del Codice civile, a differenza delle due norme citate in precedenza, non parla di “alienabilità” o di “cedibilità” (che evocano una vicenda traslativa, propria delle vicende circolatorie tra vivi), ma, più genericamente di “trasferibilità”, che può riferirsi alla circolazione tra vivi, ma anche a causa di morte.
Sul punto, tuttavia, si precisa che, stante la natura “necessaria” del fenomeno successorio, all’apertura della successione del socio titolare di azioni con prestazioni accessorie, i titoli saranno comunque acquistati dai di lui successori e, nel caso in cui il consenso degli amministratori sia negato, saranno proprio i successori del socio defunto ad acquistare il diritto alla liquidazione della quota.
Il divieto convenzionale di trasferimento della partecipazione.
Come accennato nel primo paragrafo, poi, il Codice civile prevede espressamente la possibilità di introdurre convenzionalmente limiti e divieti di trasferimento delle quote o azioni, dovendosi, in particolare, avere riguardo, sul punto, agli artt. 2355-bis e 2469 del Codice civile, applicabili, rispettivamente, alle società azionarie e alle società a responsabilità limitata.
Prima di procedere all’analisi delle singole disposizioni, si precisa che, rientrando all’interno dei limiti alla circolazione delle partecipazioni, il divieto di trasferimento comporta il diritto di recesso all’introduzione nelle società azionarie, se lo statuto non prevede diversamente (così, l’art. 2437 comma 2 let b) del Codice civile), mentre tale diritto non spetta in caso di introduzione del divieto nelle s.r.l., non rientrando tra le cause di recesso di cui all’art. 2473 del Codice civile.
Ciò posto, per quanto riguarda s.p.a. e s.a.p.a., invero, il citato art. 2355-bis comma 1 del Codice civile, dispone quanto segue: “nel caso di azioni nominative ed in quello di mancata emissione dei titoli azionari, lo statuto può sottoporre a particolari condizioni il loro trasferimento e può, per un periodo non superiore a cinque anni dalla costituzione della società o dal momento in cui il divieto viene introdotto, vietarne il trasferimento”.
Con riferimento alle s.r.l., invece, prevede l’art. 2469 comma 2 del Codice civile che “qualora l’atto costitutivo preveda l’intrasferibilità delle partecipazioni o ne subordini il trasferimento al gradimento di organi sociali, di soci o di terzi senza prevederne condizioni e limiti, o ponga condizioni o limiti che nel caso concreto impediscono il trasferimento a causa di morte, il socio o i suoi eredi possono esercitare il diritto di recesso ai sensi dell’articolo 2473. In tali casi l’atto costitutivo può stabilire un termine, non superiore a due anni dalla costituzione della società o dalla sottoscrizione della partecipazione, prima del quale il recesso non può essere esercitato”.
In tutte le società di capitali, dunque, è espressamente prevista la possibilità di introduzione statutaria di un divieto di trasferimento assoluto, per atto tra vivi o a causa di morte (cosiddetta clausola di lock up) ed entrambe le disposizioni riportate fanno riferimento ad una durata massima, rispettivamente, di cinque anni e di due anni dall’introduzione della clausola.
Tuttavia, dal tenore letterale dei due articoli in commento sembra che tale durata massima abbia un significato diverso nelle società azionarie e nelle s.r.l.
Appare, infatti, che nelle società azionarie i cinque anni siano individuati come durata massima del divieto di trasferimento, che, dunque, dovrebbe necessariamente essere introdotto con una clausola a termine finale. Viceversa, l’art. 2469 del Codice civile sembra suggerire che nelle s.r.l. il divieto di trasferimento (al pari dei limiti alla circolazione) possa essere previsto anche per un periodo superiore al biennio, anche sine die, costituendo i due anni il termine massimo per cui può essere precluso il diritto di recesso, che, decorso il biennio e manente il divieto di trasferimento, può essere esercitato ad nutum ai sensi dell’art. 2473 del Codice civile.
Tuttavia, la dottrina notarile è oggi consolidata nell’equiparare la disciplina di tutte le società capitalistiche sul punto, affermando la possibilità di prevedere anche nelle società azionarie un divieto di trasferimento delle partecipazioni per un periodo superiore al quinquennio, a condizione che, decorso tale termine, sia attribuito ai soci il diritto di recesso ad nutum, ciò al fine di scongiurare che un socio rischi di rimanere “prigioniero” della società, non potendo disfarsi della propria partecipazione.
Si precisa, poi, che l’esclusione del correttivo (diritto di recesso), seppur temporanea, prevista dalla legge si riferisce sempre e solo ai divieti di trasferimento inter vivos, in quanto qualsiasi limite alla circolazione delle partecipazioni (quindi, a maggior ragione, il divieto di trasferimento) previsto mortis causa non può mai prescindere dalla previsione in favore dei successori del socio defunto del diritto di liquidazione della quota al valore di recesso, proprio in considerazione della natura necessaria del trasferimento a causa di morte, che dunque non è riconducibile ad una “violazione” di un divieto statutario perpetrata da un socio.
Oltre all’analisi della disciplina codicistica, tuttavia, il tema del divieto di trasferimento delle partecipazioni in società di capitali non può ritenersi esaurito senza essersi occupati, altresì, di alcune note Massime di consigli notarili che si sono occupate dell’argomento.
In primo luogo, si osservi la Massima H.I.22 del Consiglio Notarile del Triveneto, che ha affrontato il tema della rinnovabilità del divieto di trasferimento a termine. Invero, se è pacifico che il divieto possa essere reintrodotto ex novo dopo l’avvenuta scadenza del termine (in altri termini, se la Alfa s.p.a., in data 01.01.2018 ha introdotto un divieto di trasferimento delle azioni per un termine di cinque anni, quindi fino al 01.01.2023, sicuramente, in data successiva, ad esempio, il 15.01.2023 potrà introdurre un nuovo divieto quinquennale, fino al 15.01.2028), la massima in oggetto si è spinta oltre, affermando che è ammissibile la rinnovazione del divieto, anche prima della scadenza del termine (tornando all’esempio fatto, secondo la massima in commento il divieto di trasferimento introdotto dalla Alfa s.p.a. con scadenza al 01.01.2023 potrebbe essere rinnovato anche in data 20.12.2022, fino al 20.12.2027). Tale Massima, tuttavia, ha suscitato non poche perplessità negli interpreti, in quanto sembrerebbe ammettere un’elusione de facto della normativa legale, tradendone la ratio: se, invero, si ammette la possibilità di rinnovare il divieto prima della scadenza dello stesso, la clausola di lock up finisce, di fatto, per operare senza soluzione di continuità, non lasciando mai aperta una finestra temporale all’interno della quale il socio può dismettere la propria partecipazione, imprigionandolo.
Altrettante controversa risulta, poi, la Massima n. 152 del Consiglio Notarile di Milano, che ha affermato che “è legittima la clausola statutaria che, in presenza di un divieto temporaneo di trasferimento di quote di s.r.l. per un periodo superiore ai due anni, escluda espressamente la facoltà di recesso per l’intero periodo di intrasferibilità, purché il termine apposto al divieto di trasferimento, tenuto conto dell’oggetto sociale e della durata della società, non sia tale da rendere il divieto assoluto e non temporaneo”.
Tale principio è stato sostenuto dal Consiglio Notarile di Milano sulla base di due diverse argomentazioni: da un lato, l’art. 2469 comma 2 del Codice civile afferma che il diritto di recesso non si può escludere per più di due anni solo in caso di divieto assoluto e gradimento mero; dall’altro lato, si fa ricorso ad un argomento sistematico, affermando che non avrebbe senso prevedere nelle società azionarie una maggiore libertà rispetto a quella concessa nelle s.r.l., la cui disciplina è, solitamente, sempre più flessibile e derogabile di quella delle società azionarie. Questi argomenti, tuttavia, non appaiono convincenti.
In primo luogo, non convince la proposta dicotomia “divieto assoluto-temporaneo”: invero, il divieto si considera assoluto ogni qual volta è previsto senza limitazioni “qualitative” durante il periodo di vigenza ed il termine finale non vale a renderlo “relativo” o “non assoluto”. Ciò spiega, ad esempio, perché in materia di società azionarie, l’art. 2355-bis del Codice civile è chiarissimo nel disporre che il divieto (assoluto) di trasferimento non può essere previsto per un termine superiore a cinque anni, a differenza dei divieti relativi (ad esempio, clausola di gradimento mero o non mero), che possono essere previsti anche senza limiti di tempo: in altre parole, dunque, i divieti devono distinguersi in “assoluti” (necessariamente previsti per un massimo di cinque o due anni, o per un termine superiore, ma con diritto di recesso) e “relativi” (che possono essere previsti anche oltre i termini citati).
In secondo luogo, l’argomento sistematico, per quanto magari convincente sul piano teorico, si scontra con la chiarissima lettera della legge, che, in questo specifico caso, sceglie di prevedere una disciplina più rigida per le s.r.l. e tale decisione non può essere cambiata dall’interprete.
Da ultimo, recentemente, il Consiglio Notarile di Milano, con la Massima n. 201, si è occupato del divieto di trasferimento parziale, per tale intendendosi la previsione statutaria in forza della quale il socio può alienare soltanto l’intera sua partecipazione e non solo una parte di essa.
Sul punto, la Massima ha affermato quanto segue: “le clausole statutarie di s.p.a. e di s.r.l. che vietano il trasferimento parziale delle azioni o della partecipazione del socio alienante – e che quindi subordinano il trasferimento alla condizione che il socio alienante trasferisca tutte le azioni o l’intera partecipazione di cui è titolare – sono legittime e non integrano un “divieto” di alienazione, ai sensi dell’artt. 2355-bis, comma 1, c.c., né un’ipotesi di “intrasferibilità” delle partecipazioni, ai sensi dell’art. 2469, comma 2, c.c.
Pertanto: (i) nelle s.p.a., la loro introduzione nello statuto dà luogo alla causa legale di recesso di cui all’art. 2437, comma 2, lett. b), c.c., ove lo statuto non disponga diversamente; (ii) nelle s.r.l., esse non danno luogo al diritto di recesso, né ai sensi dell’art. 2469, comma 2, c.c., né al momento della loro introduzione nello statuto, non essendo contemplata tale fattispecie tra le cause legali di recesso ai sensi dell’art. 2473 c.c.”.
Il divieto parziale di alienazione, dunque, deve essere considerato non come un “divieto”, ma come un semplice “limite” alla circolazione delle partecipazioni, il quale, tra l’altro, come affermato nella motivazione della Massima in commento, non richiede nemmeno la previsione di un correttivo (ad eccezione del diritto alla liquidazione al valore di recesso in favore dei successori del socio defunto che è, come già sottolineato, indefettibile), in quanto non rischia mai di rendere prigioniero il socio, che la sempre la possibilità di uscire dalla società, alienando l’intera sua partecipazione.
