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La rinuncia alla proprietà (o alla comproprietà) è un negozio giuridico unilaterale, non recettizio, a carattere dismissivo – che comporta, cioè, la perdita di un diritto su beni immobili o mobili, con conseguenze diverse in base al fatto che il rinunciante fosse l’unico titolare del bene, ovvero fosse uno tra più comproprietari.
In particolare, la rinuncia alla comproprietà o alla proprietà spesso è utilizzata per semplificare le divisioni patrimoniali o per liberarsi di beni che comportano al proprietario spese e responsabilità maggiori dei benefici arrecati.
Qualora la rinuncia abbia ad oggetto beni immobili, ai sensi dell’art. 1350 n. 5 del Codice civile, la volontà del rinunciante deve, a pena di nullità, risultare da atto scritto e, ai fini della trascrivibilità, è altresì richiesta la forma dell’atto pubblico: proprio per questo, nella rinuncia assume spesso un rilievo centrale la figura del notaio.
Invero, nell’ambito dell’attività notarile, la rinuncia è un atto che richiede un’accurata gestione, poiché ha implicazioni giuridiche, fiscali e pratiche rilevanti. La corretta applicazione delle disposizioni di legge, come infra analizzate, e la trascrizione dell’atto nei pubblici registri sono fondamentali per garantire che l’atto di rinuncia produca gli effetti desiderati e che le parti siano protette da eventuali contestazioni future.
Ad ogni modo, come accennato, il tema della rinuncia alla proprietà non può essere oggetto di una trattazione unitaria, dovendo, piuttosto, distinguersi ed esaminare separatamente le due diverse fattispecie della rinuncia alla comproprietà, da un lato, e della rinuncia alla comproprietà dall’altro.

La rinuncia alla quota di comproprietà

La prima fattispecie da indagare è quella della rinuncia alla quota di comproprietà di un bene indiviso, in caso di comunione ordinaria.
Differentemente da quanto sarà osservato in seguito in relazione alla rinuncia alla (intera) proprietà, la rinuncia alla quota di comproprietà non pone un tema di ammissibilità, essendo espressamente ammessa dall’art. 1104 comma 1 del Codice civile, ai sensi del quale “Ciascun partecipante deve contribuire nelle spese necessarie per la conservazione e per il godimento della cosa comune e nelle spese deliberate dalla maggioranza a norma delle disposizioni seguenti, salva la facoltà di liberarsene con la rinunzia al suo diritto”.
In questo caso, la rinuncia di uno dei comproprietari determina l’aumento automatico delle quote degli altri comproprietari, senza la necessità di un’accettazione formale da parte di questi ultimi (proprio questo si intende quando si definisce la rinuncia un negozio “non recettizio”, in quanto i suoi effetti sui terzi direttamente coinvolti si producono a prescindere non solo dalla loro volontà, ma anche dalla loro consapevolezza dell’avvenuta rinuncia). Ad esempio, se tre persone sono comproprietarie di un immobile, ciascuna con una quota di un terzo, e uno dei comproprietari rinuncia alla sua quota, le altre due quote si accrescono proporzionalmente, passando a metà ciascuna.

Questo fenomeno può essere vantaggioso in situazioni familiari o in contesti in cui il bene è di scarso valore o non è utilizzato in modo produttivo. Ad esempio, se un coniuge rinuncia alla propria quota su un immobile acquistato in regime di comunione ordinaria (si precisa che ciò non vale in caso di acquisto fatto dai coniugi in regime di comunione legale dei beni: sul punto, si veda quanto osservato infra), l’altro coniuge diventa il proprietario esclusivo del bene, senza che ciò comporti problemi di futura commerciabilità, che deriverebbero, invece, da una donazione della quota.

Una species della comunione ordinaria, poi, è il condominio degli edifici (artt. 1117 e seguenti del Codice civile), all’interno della cui disciplina è contenuta una specifica norma relativa alla rinuncia alla quota di comproprietà da parte di un condomino, derogatoria rispetto al citato art. 1104 del Codice civile. Invero, nel contesto condominiale, la rinuncia a una quota di proprietà delle parti comuni è vietata dall’art. 1118, secondo comma, del Codice civile. Le parti comuni del condominio sono, infatti, destinate all’uso collettivo di tutti i condomini e non possono essere oggetto di rinuncia. La rinuncia a tali diritti sarebbe incompatibile con la natura stessa del condominio, dove ogni condomino ha diritto di partecipare alla gestione delle parti comuni e di beneficiare dei relativi vantaggi. In altre parole, il condominio può rinunciare alla proprietà dell’appartamento di cui e titolare e, per l’effetto, perderà anche la comproprietà delle parti comuni, ma non può rinunciare alla comproprietà di queste ultime finché rimane proprietario dell’appartamento.

Di contro, la giurisprudenza ha sollevato dubbi sulla possibilità di rinunciare alla quota di un singolo bene nell’ambito di una comunione ereditaria. La Corte di Cassazione, con la sentenza n. 5068/2016, ha dichiarato che la rinuncia a una quota di un bene indiviso (cosiddetta quotina), all’interno di una comunione ereditaria, è nulla. Secondo la Cassazione, infatti, la rinuncia può riguardare solo l’intero patrimonio comune e non può essere limitata a un singolo bene, in quanto ciò violerebbe il principio di indivisibilità della comunione ereditaria. In altri termini, l’erede può rinunciare alla propria quota di eredità (ciò non comporta comunque la perdita dello status di erede), ma non alla propria quota su un singolo bene ereditario, in quanto, finché non avviene la divisione ereditaria, la quotina deve essere trattata, a tutti gli effetti, come un bene altrui, quindi, il coerede non può liberamente disporne a nessun titolo, nemmeno rinunciandovi.

Diverso è, poi, il caso della comunione legale dei beni tra i coniugi, che costituisce un regime di contitolarità quantomai peculiare nel nostro ordinamento, presentando importanti differenze rispetto alla comunione ordinaria. Per quanto qui d’interesse, una delle principali caratteristiche della comunione legale tra i coniugi consiste proprio nell’impossibilità per il singolo coniuge di rinunciare alla propria quota su singoli beni comuni già acquistati e caduti in comunione e, del pari, l’impossibilità del coniuge di opporsi all’acquisto regime di comunione legale, quando non ricorre nessuna delle tassative cause di esclusione di cui all’art. 179 del Codice civile (il tema del rifiuto del coacquisto è stato oggetto di specifico approfondimento pubblicato su questo sito, a cui si rinvia). Pertanto, in questo caso, qualora uno dei coniugi intenda dismettere la propria quota di diritto in favore dell’altro, sarà necessario procedere in due step: in primo luogo, una convenzione matrimoniale con cui i coniugi optano per il regime di separazione dei beni; in secondo luogo, il negozio di rinuncia alla quota di comproprietà fatto da uno dei coniugi.

La rinuncia all’intera proprietà

Ben più delicata è, invece, la fattispecie della rinuncia alla proprietà di un bene da parte dell’unico titolare.
In alcuni casi, i proprietari di beni immobili, che non traggono alcun beneficio dall’oggetto della loro proprietà, possono avere interesse a liberarsi dei relativi diritti per evitare gli oneri fiscali derivanti dalla proprietà, le spese di manutenzione o le eventuali responsabilità civili. Questo accade, ad esempio, quando si è proprietari di un fabbricato fatiscente o di un terreno agricolo che non viene coltivato, ma che comunque è soggetto a imposte e altre spese.

La rinuncia totale alla proprietà di un bene comporta che il proprietario si spogli di ogni diritto e responsabilità su quell’immobile, liberandosi così da ogni obbligo fiscale o di gestione. Secondo l’art. 827 del Codice civile, un bene che non ha un proprietario definito è considerato res nullius e, in assenza di un altro proprietario, passa allo Stato. Questo significa che, una volta che il proprietario rinuncia formalmente alla sua proprietà, il bene diventa automaticamente di proprietà dello Stato, senza che vi sia bisogno di un’ulteriore accettazione.

D’altro canto, la prassi ha sollevato delle difficoltà legate alla modifica dell’intestazione catastale e alla registrazione del bene in capo allo Stato. In passato, sono state registrate problematiche relative all’acquisto di beni da parte dello Stato a seguito della rinuncia, in quanto il Demanio ha espresso perplessità sulla legittimità di tale trasferimento. Fino a quando questa questione non sarà risolta in modo definitivo, la rinuncia totale alla proprietà potrebbe presentare delle difficoltà pratiche, soprattutto in termini di aggiornamento catastale e fiscale.

È, tuttavia, necessario sottolineare che è inammissibile rinunciare al diritto di proprietà “al solo fine, egoistico, di trasferire in capo all’Erario … – e dunque in capo alla collettività intera – i costi necessari per le opere di consolidamento, di manutenzione o di demolizione dell’immobile”: in tal caso, l’atto di rinuncia è nullo: questo è ciò che è stato affermato dall’Avvocatura Generale dello Stato nel noto parere n. 37243/17.

Gli effetti giuridici della rinuncia

Come osservato, la rinuncia produce, sotto il profilo della titolarità del diritto, effetti diversi in base al fatto che ha ad oggetto la rinuncia ad una quota di comproprietà (il diritto del rinunciante si accresce agli altri comproprietari) o all’intera proprietà (la proprietà viene acquistata dallo Stato).
Tuttavia, la rinuncia produce degli specifici effetti anche nella sfera giuridica del rinunciante, che sono i medesimi, a prescindere che oggetto della rinuncia sia una quota di comproprietà o l’intera proprietà di un bene. In primo luogo, il rinunciante viene liberato da qualsiasi responsabilità successiva all’atto notarile, comprese le spese di conservazione, manutenzione e gestione del bene.

La rinuncia a una quota di comproprietà, ad esempio, comporta la cessazione della responsabilità per le spese comuni, che includono sia quelle ordinarie di gestione dell’immobile che quelle deliberative imposte dalla maggioranza dei comproprietari (così il sopra riportato art. 1104 del Codice civile).
Viceversa, nel caso della rinuncia a diritti reali minori, la rinuncia comporta l’estinzione del diritto stesso. Ad esempio, se si rinuncia al diritto di usufrutto, il diritto si consolida a favore del nudo proprietario, che diviene pieno proprietario. Analogamente, rinunciare al diritto di superficie fa sì che il bene costruito in forza dello ius aedificandi ritorni nella piena disponibilità del proprietario del suolo, e la rinuncia a una servitù comporta la sua estinzione. Un aspetto peculiare, poi, riguarda proprio il diritto di servitù prediale: invero, il Codice civile consente espressamente al proprietario del fondo servente di rinunciare al suo diritto in favore del proprietario del fondo dominante, qualora le spese per la conservazione o l’uso della servitù siano a suo carico (art. 1070 del Codice civile). Tale rinuncia può avvenire senza alcun corrispettivo, liberando il proprietario del fondo servente dalle spese derivanti dalla servitù.

Aspetti fiscali della rinuncia alla proprietà

Sotto il profilo fiscale, invece, si può osservare quanto segue.
La rinuncia alla proprietà, essendo normalmente un atto gratuito, è soggetta all’imposta di donazione, come previsto dall’art. 1, secondo comma, del d.lgs. 31 ottobre 1990, n. 346. Questo implica che la rinuncia venga trattata fiscalmente come una donazione e che, di conseguenza, siano applicate le aliquote e le modalità di calcolo previste per tale tipo di imposta.

Nel caso in cui la rinuncia avvenga a titolo oneroso, cioè dietro corrispettivo, l’imposta applicabile è quella di registro, con le stesse aliquote previste per le compravendite immobiliari (art. 1 della tariffa, parte prima, allegata al d.P.R. 26 aprile 1986, n. 131). Si precisa, tuttavia, che l’onerosità comporta un importante mutamento della natura giuridica della rinuncia, che da negozio unilaterale non recettizio, diviene un negozio bilaterale e sinallagmatico: la natura giuridica e la controversa ammissibilità della rinuncia onerosa (che, tuttavia, la dottrina maggioritaria finisce per ammettere) sono state affrontate nel contributo specificamente dedicato alla rinuncia pubblicato su questo sito, a cui si rinvia per un approfondimento sul punto.

In forza di quanto sottolineato, dunque, la scelta di procedere con una rinuncia gratuita o onerosa ha rilevanti conseguenze fiscali, che il notaio deve chiarire alle parti coinvolte, aiutandole a comprendere le implicazioni dell’operazione e ad individuare la soluzione che meglio incontra i loro interessi.

Conclusioni

La rinuncia alla proprietà e alla comproprietà è uno strumento giuridico utile in molteplici contesti, ma comporta conseguenze significative sia sul piano patrimoniale che fiscale. La consulenza e l’intervento del notaio sono, dunque, essenziali per garantire che le parti comprendano appieno tali conseguenze, che l’atto di rinuncia sia redatto correttamente, che le implicazioni fiscali siano adeguatamente gestite e che l’atto venga correttamente registrato e trascritto, per evitare problematiche future.