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L’ANATOCISMO:

DEFINIZIONE ED EVOLUZIONE NORMATIVA E GIURISPRUDENZIALE

 

Introduzione.

Il fenomeno dell’anatocismo ha da sempre rappresentato una delle tematiche più delicate e controverse nell’ambito delle obbligazioni pecuniarie, soprattutto nel contesto bancario. Con tale termine si indica la capitalizzazione degli interessi, cioè la possibilità che gli interessi maturati su una determinata somma possano a loro volta generare ulteriori interessi. 

Si tratta, in sostanza, di un meccanismo che incide sulla dinamica del debito in modo progressivo, e che, se non adeguatamente regolamentato, può condurre a esiti economicamente gravosi per il debitore. 

Proprio in ragione di ciò, l’anatocismo ha conosciuto una progressiva evoluzione normativa e giurisprudenziale, tesa a contemperare le esigenze del creditore con la necessaria tutela del debitore.

 

La nozione codicistica di anatocismo.

Il punto di partenza è rappresentato dall’art. 1283 del Codice civile, norma che esprime in modo netto un principio di carattere generale: in mancanza di usi contrari, gli interessi scaduti possono produrre interessi solo a partire dal giorno della domanda giudiziale oppure in forza di una convenzione stipulata dopo la scadenza, e comunque solo se si tratti di interessi già dovuti da almeno sei mesi

Ne consegue un divieto tendenzialmente assoluto alla capitalizzazione degli interessi, che trova la propria ratio nell’esigenza di evitare una moltiplicazione esponenziale del debito. L’anatocismo, in questa prospettiva, è visto come una tecnica contrattuale potenzialmente iniqua, idonea a incidere in maniera sproporzionata sulla posizione patrimoniale del debitore. È per questo che l’art. 1283 rappresenta uno dei pochi divieti espressi e “secchi” del nostro Codice civile.

 

Le eccezioni al divieto.

Nonostante il principio generale, il legislatore ha previsto due deroghe

La prima è di natura giudiziale e opera nel momento in cui il creditore agisce in giudizio per ottenere il pagamento degli interessi scaduti. Da quel momento, e sempre che siano trascorsi almeno sei mesi dalla loro scadenza, gli interessi possono a loro volta produrre interessi. Si tratta, però, di una previsione con applicazione piuttosto limitata, destinata a trovare spazio solo nell’ambito del contenzioso. 

Più rilevante è la seconda eccezione, quella convenzionale. Essa consente la capitalizzazione degli interessi, ma a condizione che la relativa pattuizione avvenga successivamente alla loro scadenza e che riguardi interessi già dovuti da almeno sei mesi. In altre parole, è vietato convenire anticipatamente un meccanismo di capitalizzazione futura, anche se in forma condizionata. Le clausole che prevedono un anatocismo “programmato” sin dall’origine del rapporto sono, pertanto, da ritenersi invalide.

 

La prassi bancaria e il contrasto con l’art. 1283 del Codice civile. 

Nonostante il chiaro dettato normativo, per molti anni la prassi bancaria ha seguito logiche differenti. In particolare, era consuetudine prevedere nei contratti di conto corrente la capitalizzazione periodica degli interessi, con cadenza trimestrale o semestrale, sia per quanto riguarda gli interessi attivi, sia, e soprattutto, per quelli debitori. Tale prassi veniva giustificata richiamando i cosiddetti “usi bancari”, che avrebbero consentito una deroga al divieto di anatocismo. 

Tuttavia, la giurisprudenza ha progressivamente messo in discussione la legittimità di questa impostazione, osservando che gli usi idonei a derogare all’art. 1283 del Codice civile devono essere dotati di specifici requisiti di generalità, uniformità e notorietà. Requisiti che, nel caso degli usi bancari, non risultavano adeguatamente dimostrati.

 

La svolta giurisprudenziale del 1999.

Il vero punto di svolta giurisprudenziale si è avuto con la sentenza n. 2374 del 1999, con cui la Corte di Cassazione ha affermato con chiarezza che la capitalizzazione degli interessi debitori nei rapporti bancari non può trovare fondamento negli usi. Le clausole anatocistiche devono, dunque, rispettare rigorosamente i limiti e le condizioni previste dall’art. 1283 del Codice civile. 

Questo orientamento è stato ribadito e consolidato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la nota sentenza n. 21095 del 2004, che ha definitivamente chiarito l’illegittimità dell’anatocismo sistematico, ponendo fine a una prassi ultraventennale da parte degli istituti di credito.

 

L’intervento normativo: dal D.lgs. 342/1999 alla delibera CICR del 2000.

Di fronte al nuovo orientamento giurisprudenziale, il legislatore è intervenuto con il decreto legislativo n. 342 del 1999, che ha modificato l’art. 120 del Testo Unico Bancario (d.lgs. n. 385 del 1993), attribuendo al CICR (Comitato Interministeriale per il Credito e il Risparmio) il compito di fissare criteri e modalità per la produzione di interessi anatocistici nei contratti bancari

In attuazione di tale delega, il CICR ha emanato nel 2000 una delibera che consentiva la capitalizzazione, ma a condizione che essa avvenisse con la stessa periodicità sia per gli interessi attivi sia per quelli passivi. La delibera, tuttavia, non fu sufficiente a frenare il contenzioso, anche perché molte clausole venivano redatte in modo poco trasparente, e i clienti si trovavano a sottoscrivere condizioni di cui non coglievano appieno l’effetto moltiplicativo sul debito.

 

La riforma del 2016 e il nuovo divieto assoluto.

Con la legge n. 49 del 2016, il legislatore ha deciso di adottare una linea ancora più rigida, vietando in via generale l’anatocismo nei contratti bancari

L’art. 120 del TUB è stato riformulato per escludere la possibilità di produrre interessi su interessi, anche qualora la clausola fosse espressamente pattuita dalle parti. La nuova disciplina stabilisce che gli interessi debitori devono essere computati annualmente e diventano esigibili solo a partire dal primo marzo dell’anno successivo. Essi, però, non possono produrre ulteriori interessi, salvo il caso in cui vengano pagati spontaneamente dal cliente. In tal caso, il pagamento volontario li rende assimilabili a capitale, senza comunque eludere il divieto di anatocismo. 

La nuova delibera del CICR del 2016 ha confermato queste previsioni, stabilendo criteri attuativi coerenti con la finalità di tutela del cliente bancario.

 

La situazione attuale e le prospettive.

Oggi l’anatocismo è sostanzialmente escluso nei rapporti bancari, ma può ancora trovare applicazione in via residuale in altri contesti contrattuali, purché nel rispetto dei limiti dell’articolo 1283 del Codice civile. 

Esso continua inoltre ad avere rilevanza in ambito giudiziario, soprattutto nelle ipotesi di esecuzione forzata o di risarcimento danni. La Banca d’Italia, nel suo ruolo di vigilanza, ha più volte chiarito che le disposizioni introdotte dalla riforma del 2016 hanno natura imperativa e non possono essere derogate neppure con il consenso espresso e consapevole del cliente. L’anatocismo, dunque, è oggi oggetto di una regolazione più chiara, improntata alla massima trasparenza e alla protezione del contraente debole.

 

Conclusioni.

La disciplina dell’anatocismo ha conosciuto negli ultimi decenni un’evoluzione profonda, passando da una fase di sostanziale tolleranza e prassi consolidata a una progressiva restrizione culminata con il divieto pressoché assoluto introdotto nel 2016. Il percorso giurisprudenziale ha avuto un ruolo determinante nel sollecitare l’intervento legislativo, contribuendo a delineare un quadro normativo più coerente con i principi di equità contrattuale. In definitiva, la materia resta di grande attualità, soprattutto in considerazione dei riflessi che può avere nei rapporti tra istituti bancari e clientela. Per i professionisti del diritto, in particolare per i notai, è essenziale conoscere a fondo la disciplina, al fine di assistere correttamente le parti nella redazione di atti che comportino obbligazioni pecuniarie, evitando l’inserimento di clausole che possano rivelarsi nulle o vessatorie.