La definizione normativa di imprenditore
La figura dell’imprenditore è definita dall’art. 2082 del Codice civile, ai sensi del quale “è imprenditore chi esercita professionalmente una attività economica organizzata al fine della produzione o dello scambio di beni o di servizi”.
Tale definizione normativa enuclea, dunque, le componenti fondamentali dello status di imprenditore, che saranno in seguito brevemente analizzate.
Innanzitutto, non può esservi impresa, in assenza dell’esercizio di una “attività”, per tale dovendosi intendere una serie di atti coordinati e preordinati al raggiungimento di uno specifico scopo.
In relazione all’oggetto dell’attività, poi, viene in rilievo il tema della cosiddetta impresa illegale e dell’impresa immorale, figure non espressamente previste dal legislatore, ma enucleate dalla dottrina. La prima ipotesi ricorre quando l’attività svolta è lecita, ma viene esercitata in assenza delle autorizzazioni o licenze richieste dall’ordinamento (si pensi all’ipotesi di un soggetto che esercita l’attività di tassista, ma senza essere titolare della relativa licenza): in questo caso, l’esercizio dell’impresa comporta, comunque, l’acquisto della qualità d’imprenditore. Si parla, invece, impresa immorale o mafiosa, quando è proprio l’attività esercitata ad essere illecita (come nel caso dello spaccio di stupefacenti) e ciò preclude l’acquisto della qualità di imprenditore.
L’attività d’impresa deve, poi, essere un’attività “economica”, cioè esercitata con metodo economico, il che può dirsi quando l’attività è tesa al procacciamento di entrate remunerative dei fattori produttivi utilizzati; quando è svolta con modalità che consentono nel lungo periodo la copertura dei costi con i ricavi. Viceversa, si ha consumo e non produzione di ricchezza.
L’attività economica deve, poi, essere esercitata “professionalmente”: tale requisito può dirsi soddisfatto solo quando l’esercizio dell’attività d’impresa è abituale e non occasionale. Non è, perciò, imprenditore, ad esempio, colui che compie un’isolata operazione di acquisto e successiva rivendita di merci. La professionalità dell’esercizio dell’attività d’impresa non implica, tuttavia, che l’attività debba essere svolta in modo continuato ed ininterrotto, dovendo, senza dubbio, essere considerati imprenditori coloro che svolgono attività stagionali (si veda il caso degli stabilimenti balneari, dei rifugi alpini, etc.).
L’attività d’impresa, inoltre, deve essere “organizzata”, per tale intendendosi l’attività esercitata mediante l’impiego coordinato di fattori produttivi (capitale e lavoro) propri e/o altrui. Si precisa, tuttavia che, secondo l’opinione oggi prevalente, il requisito dell’organizzazione non può essere negato anche quando l’attività è esercitata senza l’ausilio di collaboratori o quando il coordinamento degli altri fattori produttivi (capitale e lavoro proprio) non si concretizzi nella creazione di un complesso aziendale materialmente percepibile. Ciò, comunque, non vale ad affermare che la semplice organizzazione a fini produttivi del proprio lavoro possa essere considerata attività d’impresa, essendo a tal fine indispensabile un coefficiente minimo di etero organizzazione.
L’attività d’impresa, avente i caratteri fin qui esplicati, deve necessariamente essere rivolta alla “produzione o allo scambio di beni o di servizi”, essendo, dunque, individuato in modo tassativo il fine dell’attività d’impresa. Sul punto, si precisa che, mentre l’attività di scambio di beni o servizi è necessariamente finalizzata al mercato, l’attività di produzione può essere sia finalizzata al mercato, sia per sé. In quest’ultima ipotesi, tuttavia, è discusso se colui che esercita l’attività acquisti o meno la qualifica d’imprenditore, venendo in considerazione il tema della figura del cosiddetto imprenditore per conto proprio, che, secondo l’opinione prevalente, è da ritenersi inammissibile.
Le categorie di imprenditori
Poste queste premesse di ordine generale, che si applicano a tutti gli imprenditori, si può, adesso, procedere all’analisi di tre specifiche figure di imprenditore previste dal Codice civile, cioè, il piccolo imprenditore, l’imprenditore agricolo e l’imprenditore commerciale.
Il piccolo imprenditore è sottoposto allo statuto generale dell’imprenditore, ma è esonerato, anche se esercita attività commerciale, dall’obbligo di tenuta delle scritture contabili (cfr. art. 2214, comma 3 del Codice civile); è altresì esonerato dalla liquidazione commerciale e dalle altre procedure concorsuali dell’imprenditore commerciale, potendo usufruire solo delle procedure concorsuali da sovraindebitamento disciplinate dalla l. n. 3/2012 per il consumatore; mentre l’iscrizione al Registro delle Imprese, originariamente esclusa, ha di regola solo funzione di pubblicità notizia. La nozione di piccolo imprenditore, dunque, ha rilievo essenzialmente negativo, individuando, cioè, un corpus di norme che non si applicano a determinati imprenditori.
Si precisa, tuttavia, che la nozione di piccolo imprenditore non è univoca, potendosene riscontrare diverse, che trovano applicazione ad altrettanti ambiti normativi.
Ai fini dell’applicazione delle norme del Codice civile, ad esempio, ai sensi dell’art. 2083 del Codice civile, “sono piccoli imprenditori i coltivatori diretti del fondo, gli artigiani, i piccoli commercianti e coloro che esercitano un’attività professionale organizzata prevalentemente con il lavoro proprio e dei componenti della famiglia”.
Ai fini del Codice della crisi e dell’insolvenza (d.lgs. n. 14/2019), invece, ai sensi dell’art. 2, comma 1, let. d), è “impresa minore l’impresa che presenta congiuntamente i seguenti requisiti: 1) un attivo patrimoniale di ammontare complessivo annuo non superiore ad euro trecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito della istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore; 2) ricavi, in qualunque modo essi risultino, per un ammontare complessivo annuo non superiore ad euro duecentomila nei tre esercizi antecedenti la data di deposito dell’istanza di apertura della liquidazione giudiziale o dall’inizio dell’attività se di durata inferiore; 3) un ammontare di debiti anche non scaduti non superiore ad euro cinquecentomila; i predetti valori possono essere aggiornati ogni tre anni con decreto del Ministro della giustizia adottato a norma dell’articolo 348”.
Da ultimo, ai fini del riconoscimento della qualifica di P.M.I. e dell’applicazione della relativa disciplina, ai sensi dell’art. 2, comma 1, let. f) del Reg. UE 2017, n. 1129, sono “piccole e medie imprese o PMI: i) società che in base al loro più recente bilancio annuale o consolidato soddisfino almeno due dei tre criteri seguenti: numero medio di dipendenti nel corso dell’esercizio inferiore a 250, totale dello stato patrimoniale non superiore a 43 000 000 EUR e fatturato netto annuale non superiore a 50 000 000 EUR; oppure, ii) piccole e medie imprese quali definite all’articolo 4, paragrafo 1, punto 13, della direttiva 2014/65/UE”.
Altro criterio distintivo tra gli imprenditori è quello che si rivolge all’oggetto dell’attività esercitata, distinguendo, a tal fine, il Codice civile tra imprenditore agricolo ed imprenditore commerciale. Il rilievo delle due nozioni è, tuttavia, profondamente diverso.
La nozione di imprenditore agricolo ha, almeno nel Codice civile, valore essenzialmente negativo. La sua funzione è, essenzialmente, quella di restringere l’ambito di applicazione della disciplina dell’imprenditore commerciale: chi è imprenditore agricolo è sottoposto alla disciplina prevista per l’imprenditore in generale ed è invece esonerato dall’applicazione delle norme specifiche previste per l’imprenditore commerciale.
L’imprenditore agricolo è definito dall’art. 2135 del Codice civile, che dispone quanto segue: “1. È imprenditore agricolo chi esercita una delle seguenti attività: coltivazione del fondo, selvicoltura, allevamento di animali e attività connesse. 2. Per coltivazione del fondo, per selvicoltura e per allevamento di animali si intendono le attività dirette alla cura ed allo sviluppo di un ciclo biologico o di una fase necessaria del ciclo stesso, di carattere vegetale o animale, che utilizzano o possono utilizzare il fondo, il bosco o le acque dolci, salmastre o marine. 3. Si intendono comunque connesse le attività, esercitate dal medesimo imprenditore agricolo, dirette alla manipolazione, conservazione, trasformazione, commercializzazione e valorizzazione che abbiano ad oggetto prodotti ottenuti prevalentemente dalla coltivazione del fondo o del bosco o dall’allevamento di animali, nonché le attività dirette alla fornitura di beni o servizi mediante l’utilizzazione prevalente di attrezzature o risorse dell’azienda normalmente impiegate nell’attività agricola esercitata, ivi comprese le attività di valorizzazione del territorio e del patrimonio rurale e forestale, ovvero di ricezione ed ospitalità come definite dalla legge”.
L’imprenditore commerciale, a differenza dell’imprenditore agricolo, invece, è destinatario di un’ampia ed articolata disciplina fondata sull’obbligo di iscrizione nel registro delle imprese (con funzione di pubblicità legale), sull’obbligo della tenuta delle scritture contabili, sull’assoggettamento alla liquidazione giudiziale e alle altre procedure concorsuali.
In particolare, ai sensi dell’art. 2195 del Codice civile, “1. Sono soggetti all’obbligo dell’iscrizione nel registro delle imprese gli imprenditori che esercitano: 1) un’attività industriale diretta alla produzione di beni o di servizi; 2) un’attività intermediaria nella circolazione dei beni; 3) un’attività di trasporto per terra, per acqua o per aria; 4) un’attività bancaria o assicurativa; 5) altre attività ausiliarie delle precedenti. 2. Le disposizioni della legge che fanno riferimento alle attività e alle imprese commerciali si applicano, se non risulta diversamente, a tutte le attività indicate in questo articolo e alle imprese che le esercitano”.
Lo statuto dell’imprenditore commerciale
La disciplina codicistica dell’imprenditore commerciale si fonda su tre pilastri fondamentali, che, insieme, formano il cosiddetto statuto dell’imprenditore commerciale.
Il primo gruppo di norme da analizzare è quello relativo alla rappresentanza commerciale, di cui agli artt. 2203 e seguenti del Codice civile.
Tale disciplina è fondata su due principi ispiratori, che derogano a quanto previsto in materia di rappresentanza volontaria ex artt. 1387 e seguenti del Codice civile: in primo luogo, per la posizione rivestita nell’organizzazione aziendale, procuratori, institori e commessi sono investiti di un potere di rappresentanza ex lege, commisurato alle mansioni a ciascuno assegnate; in secondo luogo, tale potere di rappresentanza non si fonda su una procura, ma deriva direttamente dalla qualifica rivestita, con la conseguenza che il terzo che contratta con questi soggetti deve solo verificare la presenza di eventuali limiti convenzionali o provvedimenti di revoca previsti dall’imprenditore al potere di rappresentanza, che, se presenti, sono menzionati in una procura.
L’institore (artt. 2203 e 2204 del Codice civile) è il soggetto a cui è affidata la gestione dell’impresa (o di un ramo dell’impresa) e che, quindi, può agire in nome e per conto dell’imprenditore, essendo titolare di un potere di rappresentanza sostanziale e processuale, anche in assenza di procura, per tutti gli atti che rientrano nell’oggetto dell’impresa. Quanto, invece, agli atti che esorbitano dall’oggetto dell’impresa, il potere di rappresentanza deve essere attribuito all’institore mediante procura speciale iscritta al Registro delle Imprese.
Il procuratore (art. 2209 del Codice civile) è un soggetto subordinato all’imprenditore e anche all’institore, che non ha un potere generale di gestione (è, infatti, titolare di un potere di rappresentanza solo sostanziale, non anche processuale) e può compiere solo atti relativi a un determinato settore operativo o una serie specifica di atti, mentre ulteriori poteri di rappresentanza gli devono essere attribuiti mediante procura speciale iscritta al Registro delle Imprese.
Da ultimo, i commessi (art. 2210 del Codice civile) sono degli ausiliari subordinati dell’imprenditore, con mansioni esecutive e materiali, muniti di poteri di rappresentanza solo sostanziale e limitato agli atti di cui all’art. 2210, comma 1, seconda parte del Codice civile.
Il secondo pilastro dello statuto dell’imprenditore è rappresentato dalla disciplina relativa all’iscrizione nel Registro delle Imprese (artt. 2188 e seguenti del Codice civile), istituito presso le Camere di Commercio.
L’iscrizione a tale Registro produce un’efficacia diversa in base all’oggetto dell’iscrizione medesima: l’iscrizione ha, infatti, efficacia costitutiva in caso di iscrizione dell’atto costitutivo di una società di capitali, o di un atto di trasformazione, fusione o scissione; efficacia dichiarativa, cioè rileva solo ai fini dell’opponibilità ai terzi del contenuto dell’atto iscritto, ad esempio, in caso di iscrizione della delibera di nomina o revoca degli amministratori di una società, di iscrizione dei limiti ai poteri rappresentativi ai soci di società di persone o agli ausiliari dell’imprenditore, etc.; efficacia normativa, che rileva, cioè, solo ai fini dell’applicabilità di una determinata disciplina, come nel caso di iscrizione delle società in nome collettivo o in accomandita semplice, che marca il passaggio dallo status di società “irregolare” a quello di società “regolare”; da ultimo, l’iscrizione può avere efficacia di mera pubblicità notizia, ad esempio, in caso di iscrizione delle società semplici e delle altre imprese agricole (alle quali è dedicata una Sezione speciale del Registro).
Da ultimo, il solo imprenditore commerciale è obbligato alla tenuta delle scritture contabili, ex artt. 2214 e seguenti del Codice civile; si precisa, tuttavia, che ai soli fini fiscali, tale obbligo è imposto a tutti gli imprenditori, commerciali e non. L’efficacia probatoria delle scritture contabili obbligatorie, da ultimo, è disciplinata dagli artt. 2709 e seguenti del Codice civile, ai sensi dei quali i libri e le scritture contabili obbligatori fanno prova contro l’imprenditore, con la precisazione, tuttavia, che chi vuol trarne vantaggio non può scinderne il contenuto; se regolarmente tenuti, poi, i libri contabili obbligatori possono altresì far prova tra imprenditori dei rapporti inerenti all’esercizio dell’impresa; da ultimo, l’art. 2711 del Codice civile disciplina i casi i cui può essere chiesta la comunicazione integrale di tutte le scritture, ovvero l’esibizione della sola parte delle scritture rilevante ai fini della res dubia.