La comunione legale dei beni in generale
La comunione legale dei beni è il regime patrimoniale legale tra i coniugi, cioè il regime patrimoniale che si applica ai coniugi (e agli uniti civilmente, in forza dell’art. 1, comma 13 della Legge Cirinnà, l. 20 maggio 2016, n. 76), in assenza di una loro diversa volontà, manifestata contestualmente all’atto di matrimonio, oppure con una convenzione matrimoniale successiva, stipulata per atto pubblico ricevuto in presenza di due testimoni, ai sensi degli artt. 162 e seguenti del Codice civile.
La comunione legale dei beni, disciplinata dagli artt. 177 e seguenti del Codice civile, è una particolare forma di comunione, che comprende, tendenzialmente, tutti i beni dei coniugi, salve le tassative eccezioni previste dalla legge (cfr. art 179 del Codice civile), e che si differenzia dalla comunione ordinaria sotto più profili.
Innanzitutto, diversa è la fonte del regime di contitolarità, cioè la legge, in caso di comunione legale dei beni, e la volontà delle parti nella comunione ordinaria.
Ulteriormente, nella comunione legale difetta uno degli elementi essenziali della comunione ordinaria, cioè le quote. La comunione tra coniugi, infatti, viene definita come una comunione senza quote, o comunione a mani riunite: da ciò discende, tra l’altro, l’impossibilità del singolo comunione, manente comunione, di disporre della propria quota di diritto, in deroga a quanto previsto dall’art. 1103 del Codice civile con riferimento alla comunione ordinaria.
A differenza della comunione ordinaria, inoltre, la comunione legale dei beni si può sciogliere soltanto per cause tassative, indicate all’art. 191 del Codice civile e, ai sensi del successivo art. 194, la divisione dei beni della comunione legale si effettua ripartendo, inderogabilmente, in parti uguali l’attivo e il passivo.
Da ultimo, sotto il profilo dell’amministrazione, l’art. 180 del Codice civile dispone che questa spetta disgiuntamente ai coniugi, per quanto concerne gli atti di ordinaria amministrazione, laddove il consenso di entrambi i coniugi è necessario, a pena di annullabilità (cfr. art. 184 del Codice civile), per i soli atti di straordinaria amministrazione.
La comunione legale dei beni, poi, si distingue in comunione legale immediata e comunione cosiddetta de residuo. Quest’ultima ha ad oggetto i beni di cui agli artt. 177 lett. b) e c) e 178 del Codice civile (in generale, i beni relativi all’impresa di un solo coniuge) ed è una comunione eventuale e differita: i beni che ne fanno parte, cioè, si considerano oggetto della comunione solo se sussistono (eventuale) al momento dello scioglimento di questa (differita) ed anche in questo caso, secondo una recente pronuncia delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza del 17 maggio 2022, n. 15889), il coniuge non imprenditore acquista un mero diritto di credito verso il coniuge imprenditore, pari alla metà dei valore dei beni, rimanendo la titolarità di questi esclusivamente in capo al coniuge imprenditore.
Il cosiddetto rifiuto del coacquisto.
Come accennato, la comunione (immediata o de residuo) legale dei beni tra coniugi comprende tutti gli acquisti che non rientrano in una delle cause, tassative, di esclusione previste dall’art. 179 del Codice civile (i beni di cui, prima del matrimonio, il coniuge era proprietario o rispetto ai quali era titolare di un diritto reale di godimento; i beni acquisiti successivamente al matrimonio per effetto di donazione o successione, quando nell’atto di liberalità o nel testamento non è specificato che essi sono attribuiti alla comunione; i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge ed i loro accessori; i beni che servono all’esercizio della professione del coniuge, tranne quelli destinati alla conduzione di un’azienda facente parte della comunione; i beni ottenuti a titolo di risarcimento del danno nonché la pensione attinente alla perdita parziale o totale della capacità lavorativa; i beni acquisiti con il prezzo del trasferimento dei beni personali sopraelencati o col loro scambio, purché ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto) e, si precisa, in assenza di una di queste cause di esclusione, l’acquisto in regime di comunione legale opera automaticamente, anche quando la parte formalmente acquirente è un solo coniuge.
La dottrina, tuttavia, si è lungamente interrogata in merito all’ammissibilità del cosiddetto “rifiuto del coacquisto”, per tale intendendosi l’ipotesi in cui il coniuge non acquirente, pur senza dichiarare falsamente che sussiste una delle cause di esclusione di cui all’art. 179 del Codice civile, manifesta la volontà di escludere la caduta in comunione legale di un bene acquistato dall’altro coniuge.
Secondo una parte degli Autori, il rifiuto del coacquisto dovrebbe considerarsi ammissibile, in forza del principio genrale di difesa della sfera giuridica individuale, che consente che questa possa subire ingerenze da parte di terzi, pur senza l’espresso consenso del titolare, a due condizioni: che gli effetti dell’ingerenza siano favorevoli e che non sussista una volontà contraria del titolare della stessa. Ebbene, escludere che il coniuge non acquirente possa rifiutare il coacquisto significherebbe proprio violare la seconda delle due condizioni sopra esposte e costringere quest’ultimo ad acquistare controforza.
È, tuttavia, oggi assolutamente prevalente l’opinione opposta, che nega l’ammissibilità del rifiuto del coacquisto, muovendo dalla seguente considerazione: nel momento in cui i coniugi optano per il regime della comunione legale dei beni, si assoggettano integralmente alle regole che disciplinano tale regime, le quali sono ispirate al principio di uguaglianza tra i coniugi e poste a tutela del coniuge economicamente più debole.
Pertanto, consentire ai coniugi di stabilire, di volta in volta, per ogni singolo acquisto, se includerlo o escluderlo dalla comunione significherebbe snaturare l’istituto e vanificarne gli obiettivi di tutela.
Tra l’altro, neppure sarebbe meritevole di accoglimento l’obiezione sopra ricordata, riassumibile nel brocardo latino “nemo invitus locupletari potest” (cioè, nessuno può arricchirsi contro la propria volontà), in quanto, a ben vedere, è come se il coniuge non acquirente avesse già manifestato la propria volontà di acquistare nel momento in cui, optando per il regime di comunione legale dei beni, ne ha accettato tutte le conseguenze giuridiche, tra le quali il descritto meccanismo di coacquisto automatico in tutti i casi non rientranti nell’art. 179 del Codice civile.
Le tecniche alternative per evitare la caduta in comunione legale di un bene
Una volta esclusa, dunque, la possibilità del rifiuto del coacquisto “diretto”, è, tuttavia, necessario chiedersi se, e come, i coniugi possano raggiungere un risultato giuridico analogo (cioè che l’acquisto di un bene non rientrante nelle cause di esclusione non cada in comunione legale), senza violare i principi generali della comunione legale dei beni.
A tale interrogativo la dottrina ha dato risposta affermativa, individuando lo strumento giuridico da utilizzare nelle convenzioni matrimoniali: se, dunque, manente comunione, il coniuge non acquirente non può impedire la caduta di un singolo bene in comunione, ciò non significa che i coniugi non possano modificare il regime patrimoniale tra loro esistente al fine di raggiungere il medesimo risultato.
Una strada certamente percorribile, se conforme alla volontà dei coniugi, è quella della stipulazione, prima dell’acquisto in questione di una convenzione di separazione dei beni, con la quale, ai sensi dell’art. 215 del Codice civile, “i coniugi convengono che ciascuno conservi la titolarità esclusiva dei beni acquistati durante il matrimonio” (rectius: acquistati dal momento della stipulazione della convenzione).
È, tuttavia, ben possibile che i coniugi vogliano rimanere in comunione dei beni per tutti gli acquisti successivi a quello per cui vorrebbero realizzare il rifiuto del coacquisto: in altre parole, dunque, i coniugi vogliono rimanere in regime di comunione, ma modificandone, nei limiti di legge, l’oggetto.
Ciò è possibile tramite una convenzione matrimoniale in cui i coniugi optano per una comunione convenzionale, ai sensi dell’art. 210 del Codice civile, rubricato, appunto, “modifiche convenzionali alla comunione legale dei beni”.
Tale ultima soluzione può, poi, essere declinata in due diverse varianti.
Secondo una parte della dottrina, le convenzioni matrimoniali dovrebbero avere carattere necessariamente programmatico, pertanto, con l’apposita convenzione matrimoniale sarebbe solo possibile escludere dalla comunione delle categorie di beni (pertanto, ad esempio, al fine di escludere la caduta in comunione di un appartamento nel quartiere Prati di Roma, l’acquisto di tale bene dovrebbe essere preceduto da una convenzione matrimoniale volta ad escludere dalla comunione tra i coniugi tutti i beni immobili siti in Roma acquistati dopo la convenzione medesima).
Secondo altri Autori, invece, le convenzioni matrimoniali potrebbero avere ad oggetto anche singoli beni: ciò è sostenuto osservando, da un lato, come non vi è alcuna norma di legge che espressamente postula la “programmaticità” quale requisito essenziale delle convenzioni matrimoniali, e, dall’altro, come non vi è alcuna norma di legge da cui si evince che le convenzioni matrimoniali debbano comprendere più di un bene, quando, al contrario, è possibile riscontrare talune ipotesi in cui l’ordinamento consente convenzioni matrimoniali aventi ad oggetto un singolo bene, come nel caso, ad esempio, del fondo patrimoniale.
Tra l’altro, un argomento testuale forte per negare il necessario carattere programmatico delle convenzioni matrimoniali, per sostenere che queste possano avere ad oggetto anche singoli beni è da ravvisarsi nell’art. 2647 del Codice civile, relativo alla trascrizione delle “convenzioni matrimoniali che escludono i (singoli) beni dalla comunione tra i coniugi”: se, dunque, è ammissibile, per tabulas, una convenzione matrimoniale volta ad escludere dalla comunione tra i coniugi un singolo bene dopo l’acquisto dello stesso, non si vede ragione di negare, del pari, l’ammissibilità di una convenzione matrimoniale volta ad escludere la caduta in comunione di un singolo bene ancora da acquistare.
Pertanto, nel caso di specie, il coacquisto potrebbe essere evitato stipulando, prima dell’acquisto del bene in questione, una convenzione matrimoniale di esclusione dalla comunione proprio di quel singolo bene che sarà acquistato da uno dei due coniugi.