L’impresa familiare è prevista e disciplinata dall’art. 230-bis del Codice civile, ai sensi del quale:
“Salvo che sia configurabile un diverso rapporto, il familiare che presta in modo continuativo la sua attività di lavoro nella famiglia o nell’impresa familiare ha diritto al mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia e partecipa agli utili dell’impresa familiare ed ai beni acquistati con essi nonché agli incrementi della azienda, anche in ordine all’avviamento, in proporzione alla quantità e qualità del lavoro prestato. Le decisioni concernenti l’impiego degli utili e degli incrementi nonché quelle inerenti alla gestione straordinaria, agli indirizzi produttivi e alla cessazione dell’impresa sono adottate, a maggioranza, dai familiari che partecipano all’impresa stessa. I familiari partecipanti all’impresa che non hanno la piena capacità di agire sono rappresentati nel voto da chi esercita la potestà su di essi. Il lavoro della donna è considerato equivalente a quello dell’uomo.
Ai fini della disposizione di cui al primo comma si intende come familiare il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo; per impresa familiare quella cui collaborano il coniuge, i parenti entro il terzo grado, gli affini entro il secondo.
Il diritto di partecipazione di cui al primo comma è intrasferibile, salvo che il trasferimento avvenga a favore di familiari indicati nel comma precedente col consenso di tutti i partecipi. Esso può essere liquidato in danaro alla cessazione, per qualsiasi causa, della prestazione del lavoro, ed altresì in caso di alienazione dell’azienda. Il pagamento può avvenire in più annualità, determinate, in difetto di accordo, dal giudice.
In caso di divisione ereditaria o di trasferimento dell’azienda i partecipi di cui al primo comma hanno diritto di prelazione sull’azienda. Si applica, nei limiti in cui è compatibile, la disposizione dell’articolo 732.
Le comunioni tacite familiari nell’esercizio dell’agricoltura sono regolate dagli usi che non contrastino con le precedenti norme”.
Tale istituto è stato introdotto con la Riforma del Diritto di famiglia (l. n. 151/1975), con l’obiettivo di regolamentare un fenomeno socialmente diffuso quale è la materiale collaborazione dei familiari all’impresa di uno dei componenti della famiglia, al fine di attribuire rilevanza giuridica a tale forma di collaborazione e soprattutto di garantire delle tutele ai familiari “collaboratori”, riconoscendo il loro apporto nell’impresa.
Invero, tale volontà del legislatore di fornire una tutela ai familiari si evince chiaramente dal primo inciso del primo comma della norma riportata, che esplicita come la disciplina dell’impresa familiare debba trovare applicazione solo come norma di chiusura, cioè quando non sia configurabile un diverso rapporto (ad esempio, rapporto di lavoro subordinato, contratto di collaborazione coordinata e continuativa, etc.).
Fattispecie costitutiva e natura giuridica
Secondo l’opinione prevalente, meritevole di accoglimento, l’impresa familiare non ha fondamento contrattuale: al contrario i diritti ed obblighi che da questa discendono sono acquistati in capo ai familiari in relazione alla circostanza materiale e fattuale della prestazione di lavoro nell’impresa: non è a tal fine sufficiente un’attività saltuaria e sporadica, dovendo invece essere riscontrabile una certa durevolezza e continuità dell’apporto prestato.
Di conseguenza, anche nel caso in cui i componenti dell’impresa familiare vogliamo cristallizzare le norme di funzionamento dell’impresa in un negozio giuridico, non si potrà mai parlare di un atto costitutivo dell’impresa familiare in senso tecnico, ma semmai di un atto di natura meramente dichiarativa.
Quanto alla natura giuridica ed alla struttura dell’impresa familiare, sorgono interrogativi di non facile soluzione. Invero, minoritaria è l’opinione secondo cui l’impresa familiare darebbe vita ad un vero e proprio nuovo modello di impresa collettiva, esercitata congiuntamente da tutti i familiari che vi collaborano.
È, invece, sicuramente prevalente l’opinione secondo cui il legislatore del 1975 non ha inteso introdurre un nuovo modello di impresa: l’impresa familiare conversa, infatti, la natura di impresa individuale, con la conseguenza che i familiari che vi cooperano non assumono la qualifica di imprenditori, con tutto ciò che ne consegue (ad esempio, solo l’imprenditore potrà essere esposto a liquidazione giudiziale, non anche i suoi familiari), nonostante, come si vedrà, partecipino alle delibere relative alla gestione straordinaria.
Tale conclusione sembra, tra l’altro, confermata dalla disciplina dei poteri spettanti ai familiari all’interno dell’impresa.
Compatibilità con la società di fatto
Questione tradizionalmente discussa in merito all’impresa familiare è quella della sua compatibilità o meno con la società di fatto.
Invero, come detto, l’impresa familiare non dà vita ad un fenomeno societario, non determinando la creazione di un nuovo soggetto giuridico.
Tuttavia, secondo l’opinione prevalente, ciò non vale ad escludere che, in concreto, tra i componenti dell’impresa familiare possano verificarsi quegli elementi presuntivi individuato dalla giurisprudenza (esistenza di un fondo comune, esercizio in comune di attività economica, ripartizione dei guadagni e delle perdite, vincolo di collaborazione in vista di detta attività, etc.) in presenza dei quali è possibile desumere la sussistenza di una società di fatto.
In questo caso, ad ogni modo, continua a trovare applicazione la disciplina dell’impresa familiare, come infra esposta, e ad essa si affianca la disciplina societaria della società di fatto (disciplina della società semplice in caso di attività non commerciale, disciplina della società in nome collettivo irregolare in caso di attività commerciale).
In particolare, si ha in questo caso una scissione tra rapporti interni e rapporti esterni, applicandosi, nei rapporti tra componenti dell’impresa familiare, la disciplina dell’art. 230-bis del Codice civile e, nei rapporti tra la società di fatto e i terzi, la disciplina societaria.
I partecipanti
La partecipazione all’impresa familiare richiede che i partecipanti abbiano un dato rapporto familiare con l’imprenditore: ai sensi del sopra richiamato terzo comma dell’art. 230-bis del Codice civile (come integrato dalla Legge Cirinnà, l. n. 76/2016), possono partecipare all’impresa familiare: il coniuge, oppure la persona unita civilmente, i parenti entro il terzo grado (figli, fratelli, zii) e gli affini entro il secondo grado (suoceri e cognati) del titolare.
L’art. 230-ter del Codice civile contempla, altresì, il convivente di fatto.
Accolta la tesi della natura individuale dell’impresa familiare, si reputa che sia l’imprenditore, titolare dell’impresa, il soggetto, nei confronti del quale occorre sussista il vincolo di coniugio, o di unione civile, di parentela o di affinità. Non manca chi ritiene sufficiente che il vincolo familiare sia in atto con uno dei componenti l’impresa.
In relazione ai partner (coniuge, unito civile, convivente), poi, la dottrina si è chiesta se il legame con l’imprenditore debba sussistere durante tutta la durata della collaborazione nell’impresa familiare, ovvero sia sufficiente nel momento in cui la collaborazione si instaura inizialmente: entrambe le posizioni sono state autorevolmente sostenute, ma si deve ritenere più aderente alla ratio della disciplina in esame l’opinione di chi ritiene necessaria la sussistenza del rapporto con l’imprenditore un elemento essenziale ai fini dell’applicabilità degli artt. art. 230-bis e 230-ter del Codice civile, con la conseguenza che la cessazione del rapporto di coniugio/unione civile/convivenza comporta altresì in venir meno della partecipazione all’impresa familiare e il sorgere in capo all’ex partner del diritto alla liquidazione della quota, come si vedrà infra.
Naturalmente, la semplice qualità di familiare dell’imprenditore nei gradi sopra elencati non dà titolo alla partecipazione all’impresa familiare, essendo necessaria, a tal fine, la materiale attività di lavoro prestata nell’impresa.
Si precisa, tuttavia, che all’impresa familiare ben possono collaborare anche terzi estranei, ma in questo caso a costoro non si applicherà quanto stabilito dall’art. 230-bis del Codice civile, potendo il loro rapporto con l’imprenditore essere disciplinato unicamente dagli ordinari contratti di lavoro o di collaborazione parasubordinata o autonoma.
Disciplina dell’impresa familiare
L’ art. 230-bis del Codice civile riconosce ai familiari che fanno parte dell’impresa familiare una serie di diritti ritenuti tra l’altro inderogabili dai privati, tra cui: la partecipazione agli utili dell’impresa familiare, ai beni con essi acquistati e agli incrementi dell’azienda, anche in ordine all’avviamento (partecipazione, che dovrà essere commisurata al lavoro prestato), mantenimento secondo la condizione patrimoniale della famiglia (quest’ultimo prescinde invece dalla commisurazione dell’entità del lavoro prestato e spetta a prescindere ad ogni componente dell’impresa familiare, a carico dell’imprenditore).
Si precisa, tuttavia, che tale diritto di mantenimento non spetta al convivente di fatto che fa parte dell’impresa familiare, in quanto non richiamato dall’art. 230-ter del Codice civile.
L’imprenditore, poi, al fine di consentire ai famigliari la conoscenza dell’andamento dell’attività, è tenuto a presentare, annualmente, il rendiconto.
Sotto il profilo della gestione dell’impresa, l’ordinaria amministrazione spetta in via esclusiva all’imprenditore, unico illimitatamente responsabile verso i terzi per le obbligazioni dell’impresa, mentre le decisioni inerenti la straordinaria amministrazione dell’impresa devono essere adottate a maggioranza dai familiari che concorrono all’impresa (si precisa che per i familiari incapaci, perché minori, interdetti, etc., il voto è esercitato dai rispettivi rappresentanti legali): tuttavia, le decisioni dei familiari hanno rilevanza meramente interna, potendosene l’imprenditore discostare, divenendo responsabile, unicamente, dei danni cagionati ai compartecipi, in conseguenza del mancato rispetto del procedimento decisionale contemplato.
Il diritto di partecipazione all’impresa familiare, poi, è intrasferibile, salvo che avvenga in favore di altro familiare e, in questo caso, comunque previo consenso unanime di tutti i partecipanti all’impresa.
In caso di trasferimento dell’impresa familiare da parte dell’imprenditore, invece, i familiari (ad esclusione del convivente di fatto, stante la mancanza di un richiamo in tale senso nell’ art. 230-ter del Codice civile) che ne fanno parte hanno un diritto di prelazione, la cui natura propria o impropria è stata oggetto di ampia controversia in dottrina e giurisprudenza: tuttavia, sembra preferibile riconoscere nell’art. 230-bis, comma quarto, del Codice civile una prelazione propria, al pari di tutte le altre prelazioni legali (con l’unica differenza della prelazione cosiddetta artistica, per espressa previsione normativa).
Questione discussa in dottrina ed in giurisprudenza è se tale diritto di prelazione spetti in caso di trasferimento dell’impresa ad un discendente a titolo di patto di famiglia. Invero, se da un lato, sussisterebbero, a rigore, i presupposti oggettivi e soggettivi dell’operatività della prelazione, dall’altro lato, accordando tale diritto a tutti i componenti dell’impresa familiare si finirebbe per violare la ratio stessa del patto di famiglia, che consiste nel diritto dell’imprenditore di individuare, tra i suoi discendenti, quello, a suo parere, in possesso delle migliori qualità per portare avanti l’attività d’impresa.
Quanto alle modalità di esercizio di tale diritto di prelazione, si applica quanto previsto in materia di prelazione ereditaria ex art. 732 del Codice civile, stante l’espresso richiamo a tale norma contenuto nell’art. 230-bis del Codice civile.
Ultimo diritto che spetta ai componenti dell’impresa familiare (anche questo ad esclusione del convivente di fatto, stante la mancanza di un richiamo in tale senso nell’ art. 230-ter del Codice civile) è il diritto alla liquidazione in qualsiasi caso di cessazione di interruzione del rapporto di collaborazione nell’impresa, ovvero di cessione dell’azienda: si precisa che l’estinzione non impedisce la successiva costituzione di una nuova impresa familiare, altresì in composizione differente.
La liquidazione avviene in danaro, ma può effettuarsi anche in natura, in unica soluzione o in più annualità; in difetto di accordo, decide il giudice.
Deve reputarsi, inoltre, che, pur non essendo specificamente prevista, vada ammessa l’esclusione di un compartecipe in ipotesi di «giusta causa», che renda intollerabile la prosecuzione del rapporto. La decisione, quale atto di gestione straordinaria, si reputa che spetti alla maggioranza dei partecipanti.
Nessun dubbio, inoltre, sul fatto che ogni partecipante possa recedere dall’impresa, interrompendo la prestazione lavorativa in qualità di famigliare.
È tuttavia necessario svolgere alcune ulteriori precisazioni in merito al caso di cessione dell’impresa familiare. Sul punto è, innanzitutto, necessario distinguere in base al fatto che cessionario dell’impresa sia un estraneo, oppure un altro familiare.
Nel primo caso, non vi è dubbio che la cessione dell’azienda comporti la cessazione dell’impresa familiare e il conseguente diritto alla liquidazione dei componenti di questa.
In caso di cessione in favore di un familiare dell’imprenditore, invece, è discusso se possa parlarsi di cessazione dell’impresa familiare: tale questione assume rilievo soprattutto in caso di patto di famiglia, ove assegnatario dell’impresa, ex art. 768-bis del Codice civile deve necessariamente essere un discendente dell’imprenditore. La questione è, ad oggi, discussa, ma si ritiene più tuzioristica l’opinione di chi afferma che debba parlarsi di cessazione dell’impresa in tutti i casi di cessione della stessa (il che, ovviamente, non osta alla ricostituzione di una nuova impresa familiare in cui imprenditore sia il discendente che ha acquistato l’impresa a titolo di patto di famiglia).