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Ai sensi dell’art. 832 del Codice civile, il proprietario ha diritto di godere e disporre delle cose in modo pieno ed esclusivo, entro i limiti previsti dall’ordinamento, tuttavia, in forza dell’autonomia negoziale delle parti, tale duplice contenuto del diritto di proprietà può essere limitato.

In particolare, il proprietario può ridurre il proprio diritto di godere del bene, tramite la costituzione sul medesimo di un diritto reale minore (diritto di usufrutto, uso, abitazione, etc.) opponibile erga omens, ovvero di un diritto reale di godimento (contratto di locazione, di comodato, etc.), avente efficacia solo obbligatoria.

Del pari, anche il diritto di disporre del bene può essere limitato con efficacia reale, ovvero obbligatoria ed il divieto può trovare fonte in un negozio tra vivi o di ultima volontà, stipulato alle condizioni, nei limiti e con gli strumenti appresso analizzati.

Il divieto di alienazione negli atti inter vivos

Il Codice civile prevede più in forza delle quali è possibile prevedere un divieto di alienazione avente fonte in un atto tra vivi, aventi presupposti ed efficacia differenti.

Divieto di alienazione con efficacia obbligatoria.

La prima norma che viene in rilievo in materia di limitazione del potere del proprietario di disporre del bene che trova fonte in un negozio tra vivi è l’art. 1379 del Codice civile, ai sensi del quale “il divieto di alienare stabilito per contratto ha effetto solo tra le parti e non è valido se non è contenuto entro convenienti limiti di tempo e se non risponde ad un apprezzabile interesse di una delle parti”.

Dalla norma citata emergono, dunque, i tre elementi essenziali del divieto di alienazione contrattuale.

In primo luogo, sotto il profilo della natura giuridica, si tratta di un divieto avente efficacia solo obbligatoria (che vale, cioè, solo tra le parti): da ciò discende che l’alienazione compiuta dal proprietario in violazione del divieto rimane perfettamente valida ed efficace, essendo quindi inattaccabile l’acquisto del terzo avente causa, ma fa sorgere in capo al proprietario alienante un obbligo di risarcire il danno in favore dell’altra parte dell’accordo che aveva sancito il divieto.

In secondo luogo, il divieto non può essere previsto sine die, ma deve necessariamente essere limitato nel tempo, in quanto, viceversa, il diritto di proprietà verrebbe snaturato, fino al punto di dar vita ad un diritto reale atipico, che si scontra contro il principio generale del numerus clausus dei diritti reali.

Il Codice, tuttavia, non individua espressamente il limite massimo entro cui tale divieto può lecitamente essere previsto, limitandosi a prevedere che il limite di tempo sia “conveniente”.

La dottrina e la giurisprudenza hanno, dunque, tentato di colmare tale lacuna normativa, tramite l’applicazione in via analogica di alcune norme codicistiche che prevedono delle ipotesi legali di intrasferibilità per un certo periodo di tempo: sul punto, vi è stato chi ha ritenuto di individuare un possibile limite massimo nella durata di novant’anni dalla costituzione del vincolo, con applicazione analogica di quanto previsto in materia di vincolo di destinazione ex art. 2645-ter del Codice civile (si cui ci si soffermerà infra), ma tale ricostruzione si espone inevitabilmente all’obiezione per cui il vincolo da ultimo citato ha natura reale, che lo pone su un piano ben diverso dal vincolo obbligatorio in oggetto; altra parte della dottrina ha, invece, sostenuto che il limite massimo del divieto di alienazione dovrebbe considerarsi ventennale, rinviando al medesimo termine previsto ex art. 965 comma 3 del Codice civile in relazione al divieto convenzionale di disporre del diritto di enfiteusi; tuttavia, è forse oggi prevalente l’opinione di coloro i quali sostengono che il divieto in discorso possa essere previsto per una durata non superiore al quinquennio, rinviando al termine di cinque anni previsto in materia di divieto di divisione o di obbligo di non concorrenza (rispettivamente, ex artt. 713 comma 3 e 2596 del Codice civile).

In terzo luogo, il divieto in esame è legittimo se ed in quanto risponda ad un interesse “apprezzabile” di una delle parti, per tale dovendosi intendere un interesse, patrimoniale o meno, idoneo a superare positivamente il vaglio di meritevolezza di tutela secondo l’ordinamento giuridico, principio generale che governa l’intera materia dell’autonomia contrattuale, posto ex art. 1322 del Codice civile.

Sotto il profilo dell’ambito di applicazione, invece, il divieto in commento si applica sicuramente al divieto di cessione del diritto di proprietà, di enfiteusi, a mezzo di tutti i contratti traslativi, a qualsiasi titolo realizzati (vendita, permuta, donazione, etc.), nonché ai vincoli di utilizzazione (ad esempio, Tizio vende a Caio la casa in Torino, con l’onere di non adibirla ad attività di bed and breakfast, ovvero con l’obbligo di concederla in locazione) mentre sicuramente non si applica agli atti dispositivi di altri diritti reali minori, ai contratti non traslativi (locazione, comodato, etc.) o ai patti di prelazione convenzionale (in quest’ultimo caso, invero, non ricorre la ratio di limitare il divieto, in quanto la previsione in una prelazione convenzionale non limita il diritto del proprietario di disporre del bene, ma lo obbliga, per il caso in cui volesse disporne, a preferire nell’acquisto un soggetto piuttosto che un altro).

È, invece, discusso se i limiti dei convenienti limiti di tempo e dell’apprezzabile interesse siano necessari in caso di pactum de non cedendo avente ad oggetto un diritto di credito, stipulato ex art. 1260 comma 2 del Codice civile: invero, sul punto vi è chi ha osservato che il diritto di credito è un diritto che, per sua stessa natura, è necessariamente limitato nel tempo, essendo soggetto all’ordinario termine di prescrizione decennale, che non renderebbe necessaria la previsione convenzionale di un limite di tempo al divieto di cessione; tuttavia, sebbene ciò sia vero, si ritiene più tuzioristico e, dunque, forse preferibile accogliere l’opposta tesi di coloro che sostengono l’applicabilità dei limiti di cui all’art. 1379 del Codice civile anche ai divieti convenzionali di cessione del credito, rinvenendo nella citata norma un principio di carattere generale.

Divieto di alienazione con efficacia reale.

La dottrina si è, poi, interrogata in merito alla possibilità delle parti di prevedere un divieto di alienazione convenzionale con efficacia reale, in deroga a quanto sancito dall’analizzato art. 1379 del Codice civile.

Ciò è sicuramente possibile con riguardo al divieto di alienazione del diritto di usufrutto, essendo pacifica l’efficacia reale del patto in deroga all’art. 980 del Codice civile, ai sensi del quale l’usufruttuario può cedere il proprio diritto per un certo tempo o per tutta la sua durata “se ciò non è vietato dal titolo costitutivo”, da ciò derivando l’opponibilità erga omnes del divieto, la cui violazione rende, dunque, l’acquisto del terzo avente causa inopponibile alle parti del divieto contrattuale.

Sul punto, la dottrina è altresì concorde nel ritenere applicabili al divieto in esame non solo gli atti di trasferimento del diritto di usufrutto, ma anche gli atti di concessione di ipoteca o di concessione in locazione o in comodato del medesimo diritto.

Discussa è, viceversa, la possibilità delle parti di “attribuire efficacia reale” al divieto convenzionale di alienazione (del diritto di proprietà) mediante apposizione di una condizione risolutiva, il cui avveramento produce effetti retroattivi reali ex art. 1360 del Codice civile.

In altre parole, ci si chiede se sia valida una convenzione strutturata come segue: Tizio vende a Caio il diritto di proprietà della casa in Torino, alla condizione risolutiva che Caio alieni a terzi il medesimo bene, con la conseguenza che l’alienazione del bene da Caio ad un terzo comporterebbe l’avveramento della condizione risolutiva apposta alla prima vendita e l’automatico riacquisto della proprietà del bene in capo all’originario alienante, Tizio, come se la prima vendita non avesse mai avuto luogo.

Secondo una parte degli Autori, invero, un accordo di tal genere sarebbe inammissibile in quanto volto ad attribuire al divieto di alienazione un’efficacia diversa da quella tipica (obbligatoria) prevista per legge; è, tuttavia, senza dubbio prevalente l’opposta opinione di coloro che sostengono l’ammissibilità della condizione in discorso, nel presupposto, tuttavia, che l’operatività della condizione medesima sia circoscritta all’interno dei convenienti limiti di tempi e sorretta da apprezzabile interesse, ricorrendo la medesima ratio del divieto ex art. 1379 del Codice civile.

Ipotesi ancora diversa è quella dei vincoli di destinazione costituiti ex art. 2645-ter del Codice civile, che non solo sono connotati da un’efficacia reale e possono avere ad oggetto solo beni immobili e mobili registrati, ma svolgono una funzione più ampia di quella del divieto di alienazione: invero, il divieto di alienazione, in qualsiasi modo sia realizzato, è volto unicamente a precludere il diritto del proprietario di disporre del proprio diritto per un certo periodo di tempo, viceversa, la costituzione di un vincolo di destinazione fa sì che il bene vincolato, per tutta la durata del vincolo medesimo (pari, al massimo, all’intera vita del beneficiario persona fisica o a novant’anni dalla costituzione, in caso di beneficiario persona giuridica), non solo sia sottratto alla libera disponibilità del titolare, ma debba essere utilizzato esclusivamente per la realizzazione di un interesse meritevole di tutela riferibile al beneficiario medesimo.

In tal senso, dunque, si può affermare che, se il divieto di alienazione sic et simpliciter ha un contenuto meramente “negativo”, il vincolo di destinazione ha contenuto al contempo “negativo e positivo”.

Il divieto di alienazione negli atti mortis causa

Se, invero, l’analisi dei divieti di alienazione convenzionali previsti con negozi tra vivi è, come visto, guidata da una serie di norme di diritto positivo, non si può dire lo stesso per quanto riguarda l’indagine dei divieti di alienazione per testamento, stante l’assenza di ogni riferimento in tal senso nell’attuale Libro II del Codice civile, dedicato alla materia successoria.

Invero, nell’originaria formulazione del Codice civile, l’art. 692, comma 4 proibiva espressamente al testatore di inserire nel testamento clausole che vietassero all’erede o al legatario di disporre di quanto ricevuto per successione, con atto tra vivi o a causa di morte, sancendo con la nullità la clausola testamentaria eventualmente prevista in contrasto con tale divieto.

Tuttavia, la l. n. 151/1975 (cosiddetta Riforma del Diritto di Famiglia) ha previsto una riformulazione del citato art. 692 del Codice civile, dal quale è stato espunto il comma citato: invero, la disposizione in commento sancisce oggi la nullità della sola sostituzione fedecommissaria (facendo salvo il solo cosiddetto fedecommesso assistenziale), per tale intendendosi l’obbligo dell’erede o legatario di conservare quanto ereditato e restituirlo alla morte (oppure solo di restituirlo, parlandosi in questo caso di fedecommesso de residuo) ad altro soggetto (il sostituto) individuato dal de cuius.

Oggi, dunque, il testatore non può vietare all’erede o al legatario di disporre come crede a causa di morte di ciò che ha ereditato, ma è venuto meno il divieto per il testatore di prevedere divieti di alienazione inter vivos aventi ad oggetto i beni ereditari.

Posta questa generale premessa, una volta ammessa la generale ricevibilità dei divieti di alienazione testamentari, è necessario interrogarsi sugli strumenti tecnici utilizzabili per realizzare tali divieti.

Divieto di alienazione con efficacia obbligatoria.

Qualora il testatore voglia prevedere un divieto di alienazione con efficacia solo obbligatoria, lo strumento giuridico d’elezione da utilizzare è, senza dubbio, l’onere, apponibile alle disposizioni sia a titolo universale che a titolo particolare, ex art. 647 del Codice civile, che comporta un corrispondente obbligo a carico del beneficiario della disposizione, il cui inadempimento comporta mera responsabilità risarcitoria dell’erede o legatario, salvo che il testatore abbia strutturato l’onere come determinante o risolutivo (in questo caso, invero, l’inadempimento dell’onere può comportare la risoluzione della disposizione, ex art. 648 comma 2 del Codice civile).

All’uopo, si precisa che tale divieto di alienazione, essendo realizzato con lo strumento dell’onere, qualora sia apposto ad una disposizione in favore di un legittimario (cioè, coniuge, figlio e, in assenza di figli, ascendente del testatore), è valido nei soli limiti di cui all’art. 549 del Codice civile (che sancisce il divieto di pesi e condizioni sulla quota dei legittimari), cioè, solo in quanto non intacchi la quota di riserva del legittimario.

Se ciò è pacifico, è, viceversa, discusso se anche ai divieti di alienazione testamentari trovino applicazione i presupposti dei convenienti limiti di tempo ed apprezzabile interesse richiesti ex art. 1379 del Codice civile.

Secondo una parte della dottrina, invero, tale norma non dovrebbe trovare applicazione agli atti di ultima volontà, in quanto questi ultimi hanno già scontato, ab origine e con esito positivo, il giudizio di meritevolezza degli interessi sottesi.

Tuttavia, è oggi maggioritaria, anche in giurisprudenza, l’opposta opinione che afferma l’applicabilità anche alle disposizioni testamentarie di quanto previsto dall’art. 1379 del Codice civile, argomentando sulla base della natura di principio generale della norma in commento, solo precisandosi che, in caso di divieto di alienazione testamentario, l’apprezzabile interesse a cui il divieto deve rispondere deve essere necessariamente, secondo opinione consolidata, un interesse del testatore.

Pertanto, è possibile fare integrale rinvio a quanto sopra osservato in relazione all’efficacia, alla struttura ed all’ambito di applicazione del divieto medesimo.

Divieto di alienazione con efficacia reale.

Del pari, è possibile mutuare le considerazioni sopra svolte in materia di divieti di alienazione con efficacia reale previsti in negozi inter vivos, essendo sul punto, tuttavia, fare le seguenti precisazioni.

In primo luogo, in caso di divieto di alienazione realizzato tramite apposizione all’istituzione ereditaria o al legato di una condizione risolutiva (dell’alienazione del bene da parte del beneficiario), oltre alla previsione dei convenienti limiti di tempo ed apprezzabile interesse, qualora beneficiario della disposizione sia un legittimario, deve sempre tenersi in considerazione il già menzionato divieto di pesi e condizioni posto ex art. 549 del Codice civile, in forza del quale la condizione risolutiva in esame potrà operare solo nei limiti della quota disponibile attribuita al legittimario beneficiario della disposizione.

In secondo luogo, all’indomani dell’introduzione dell’art. 2645-ter del Codice civile, la dottrina si è interrogata in merito alla possibilità o meno di costituire tale vincolo, in via diretta per testamento: sul punto, invero, si è osservato che vi è una compatibilità strutturale tra il negozio inter vivos di costituzione del vincolo ed il testamento, stante la natura giuridica unilaterale di entrambi i negozi.

Tuttavia, il problema dell’ammissibilità del vincolo testamentario si è posto sotto il profilo della forma a tal fine richiesta: invero, l’art. 2645-ter del Codice civile richiede che la costituzione del vincolo avvenga “in forma pubblica”, pertanto, la dottrina prevalente ammette la costituzione in via diretta con il testamento pubblico, mentre la esclude in caso di testamento segreto od olografo (è, infatti, minoritaria l’opinione di chi ammette la costituzione del vincolo di destinazione in via diretta tramite qualsiasi testamento, facendo leva si principio generale dell’equipollenza delle forme testamentarie).