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Gli elementi accidentali del contratto in generale.

L’art. 1325 c.c. individua gli elementi essenziali del contratto, cioè quegli elementi che devono essere presenti all’interno di un contratto, con le caratteristiche delineate dai successivi articoli, a pena di nullità dello stesso: questi elementi solo l’accordo, la causa, l’oggetto e la forma, quest’ultima solo quando è prescritta dalla legge a pena di nullità.

Vi sono, poi, degli ulteriori elementi che le parti possono decidere di inserire nel contratto, al fine di modularne gli effetti, la cui presenza non è quindi necessaria ai fini della validità del negozio, ma frutto della manifestazione di una libera volontà delle parti, ragion per cui tali elementi sono definiti accidentali e sono la condizione, il termine e, secondo l’impostazione tradizionale, l’onere.

Gli elementi accidentali, si precisa, possono essere apposti, in linea di principio ad ogni negozio, sia che si tratti di un negozio plurilaterale (contratto), sia di un negozio unilaterale, con l’eccezione dei cosiddetti actus legitimi, cioè quei negozi nei quali l’apposizione di un elemento accidentale è causa di nullità dell’intero atto: si pensi, ad esempio, alla accettazione e alla rinuncia all’eredità, oppure al matrimonio, al riconoscimento di figlio, o all’adozione.

Vi sono poi dei casi in cui è l’oggetto stesso del negozio a determinare una incompatibilità con la presenza di un elemento accidentale: questo è il caso del termine finale apposto al diritto di proprietà, che priverebbe tale diritto del carattere essenziale della perpetuità, ovvero all’istituzione ereditaria, che comporterebbe la violazione di uno dei principi fondanti del diritto successorio, in forza del quale semel heres, sempre heres.

La condizione in particolare.

La condizione, disciplinata con riguardo ai negozi inter vivos dagli artt. 1353 e ss. c.c. e con riferimento agli atti mortis causa agli artt. 633 e ss. c.c., è l’elemento accidentale del negozio che subordina il prodursi degli effetti negoziali, ovvero la cessazione degli effetti negoziali all’avveramento di un avvenimento futuro ed incerto.

In relazione alle sole condizioni apposte ad una disposizione testamentaria, tra l’altro, si precisa che il requisito della futurità deve essere rispettato con riferimento al solo momento della testamenti factio, non rilevando invece che l’avvenimento dedotto in condizione si sia già avverato, ovvero sia mancato, nel momento in cui si apre la successione: tuttavia, nel caso in cui il termine individuato dal testatore come rilevante per verificare l’avveramento o meno della condizione coincida proprio con l’apertura della successione (e dunque con il primo momento in cui il testamento diviene efficace), la dottrina è solita parla di condizione impropria, ove la “improprietà” attiene al fatto che si tratta di una condizione strutturata in modo tale da escludere necessariamente un periodo di pendenza (cioè la finestra temporale tra il momento in cui il negozio potrebbe validamente produrre effetti e l’avveramento o mancanza della condizione).

Sul piano degli effetti, poi, deve essere posta una summa divisio tra condizione sospensiva e condizione risolutiva: la prima differisce la produzione degli effetti del negozio al momento dell’avveramento dell’evento dedotto in condizione, mentre in presenza di una condizione risolutiva l’avveramento di quest’ultima comporta il venir meno degli effetti del negozio.

Avendo, invece, riguardo al ruolo giocato dalla volontà delle parti in merito all’avveramento o meno dell’evento dedotto in condizione, si distingue tra condizione casuale, mista (o potestativa) e meramente potestativa. La condizione si definisce casuale quando la volontà delle parti non è in alcun modo idonea ad influire sull’avveramento o meno della condizione, mentre si ha una condizione mista quando ai fini dell’avveramento serve la concorrenza della volontà di una delle parti e di un evento che trascende la sua sfera di influenza, mentre la condizione è detta meramente potestativa quando il suo avveramento o meno dipende in via esclusiva da una manifestazione di volontà delle parti.

Le condizioni casuali e quelle miste sono sempre ammissibili (nel presupposto, ovviamente, che l’evento dedotto in condizione sia lecito e possibile e, con riferimento alle condizioni testamentarie, che non coarti la volontà del beneficiario della disposizione), mentre maggiori problemi pone la condizione meramente potestativa. Invero, l’art. 1355 c.c. sancisce la nullità della condizione sospensiva il cui avveramento dipende esclusivamente dalla volontà di una delle parti, in quanto, viceversa, si finirebbe di fatto per dedurre in condizione un elemento essenziale del negozio, cioè la volontà delle parti, il cui incontro sugella l’accordo (ad esempio: “Tizio vende a Caio la casa in Milano, a condizione sospensiva che Tizio lo voglia”): per lo stesso motivo è, invece, valida la condizione sospensiva il cui avveramento dipende esclusivamente dalla volontà di un terzo.

È, poi, sempre valida la condizione risolutiva meramente potestativa, perché il divieto dell’art. 1355 c.c. si riferisce alla sola condizione sospensiva ed inoltre perché l’ordinamento generalmente ammette una certa precarietà del vincolo negoziale nella fase costitutiva (si pensi alla ammissibilità del diritto di recesso ex art. 1373 c.c.).

Come già accennato, poi, requisiti di validità della condizione sono la possibilità e liceità dell’evento dedotto in condizione, ma le conseguenze della eventuale illiceità o impossibilità sono diverse a seconda del fatto che la condizione in oggetto sia apposta ad un atto tra vivi, o ad una disposizione testamentaria: invero, l’art. 1354 c.c. dispone la radicale nullità del negozio tra vivi a cui sia apposta una condizione (sospensiva o risolutiva, che sia) illecita, ovvero una condizione sospensiva impossibile, considerandosi invece non apposta la condizione risolutiva impossibile; viceversa, ai sensi dell’art.

634 c.c., la condizione impossibile o illecita apposta ad una disposizione testamentaria si considera sempre come non apposta, non determinando mai la nullità della disposizione, il che si giustifica in considerazione del generale favor testamenti, derivante dalla impossibilità del testatore di esprimere nuovamente la propria volontà dopo che il testamento è divenuto efficace.

Questione interessante e controversa è, poi, quella della possibilità di disporre del diritto condizionato, durante la pendenza della condizione, quando, cioè la parte negoziale è titolare di una mera aspettativa di diritto giuridicamente rilevante. In questo caso, è senza dubbio possibile disporre del diritto condizionato, subordinando l’efficacia dell’atto dispositivo all’avveramento della medesima condizione apposta al negozio originario. Tuttavia, è altresì possibile disporre del diritto oggetto del primo negozio con efficacia immediata, ma a tal fine sono necessari il consenso sia del titolare dell’aspettativa, sia dell’attuale titolare del diritto.

Passando, infine, agli effetti dell’avveramento della condizione, la norma cardine è l’art. 1360 c.c., che trova applicazione anche alle condizioni testamentarie e sancisce il principio della retroattività reale dell’avveramento della condizione, che si differenzia, ad esempio, dalla retroattività meramente obbligatoria della risoluzione del contratto, come definita ex art. 1458 c.c.: ad ogni modo, l’art. 1360 c.c. è norma pacificamente derogabile dalle parti, che possono prevedere una regolamentazione convenzionale della retroattività.

Proprio la retroattività reale dell’avveramento, tra l’altro, è uno degli elementi che hanno fatto dubitare dottrina e giurisprudenza della ammissibilità delle cosiddette condizioni di adempimento e, in particolare, condizione sospensiva di adempimento e risolutiva di inadempimento.

Secondo una prima impostazione, invero, tali condizioni sarebbero inammissibili, in quanto l’adempimento sarebbe un elemento essenziale del contratto, che quindi non potrebbe essere dedotto in condizione e soprattutto perché, proprio a causa della retroattività reale degli effetti dell’avveramento, non si potrebbe parlare di inadempimento in senso tecnico (venendo meno con efficacia ex tunc il contratto, verrebbe radicalmente meno anche la fonte dell’obbligo inadempiuto), con la conseguenza che la parte adempiente non avrebbe titolo per agire per il risarcimento; inoltre, con riguardo alla sola condizione sospensiva di adempimento, questi Autori ne sostengono l’inammissibilità, in quanto, affermano, si determinerebbe una inversione tra esecuzione ed efficacia del contratto.

L’opinione ad oggi prevalente e preferibile, tuttavia, ammette le condizioni di adempimento, rilevando come l’adempimento attenga alla mera fase esecutiva del contratto, non essendo un elemento essenziale dello stesso e potendo dunque essere dedotto in condizione, e soprattutto affermando che la parte adempiente ben può dichiarare di rinunciare agli effetti dell’avveramento della condizione ed agire per il risarcimento, qualora lo trovi maggiormente conveniente.

Il termine.

Il termine di efficacia è quell’elemento accidentale del negozio che ne subordina la produzione, o la cessazione, degli effetti ad un evento futuro e certo (a differenza della condizione, ove l’evento è incerto). In ciò, il termine di efficacia si differenzia dal termine di adempimento, il quale non interferisce con l’efficacia del negozio, immediatamente efficace, ma si limita a differire il momento in cui diviene esigibile l’adempimento di una specifica obbligazione.

Anche in relazione al termine, come per la condizione, è possibile porre una summa divisio basata sugli effetti dell’elemento accidentale, distinguendo a tal fine tra termine iniziale, che differisce l’efficacia del negozio ad un momento successivo a quello del suo perfezionamento e termine finale, che individua il momento ultimo il cui si produrranno gli effetti del negozio.

Anche in relazione al termine, poi, possono essere interamente riproposte le superiori considerazioni relative alla condizione meramente potestativa: è dunque nullo, in forza di una applicazione estensiva dell’art. 1355 c.c., il termine iniziale meramente potestativo rimesso alla volontà di una delle parti, mentre è valido, anche se meramente potestativo il termine finale.

Il termine, poi, al pari della condizione, può essere tendenzialmente apposto a qualsiasi negozio (diverso dagli actus legitimi) e, dunque, anche ad una disposizione mortis causa, ma solo se si tratta di disposizioni testamentarie a titolo particolare (in questo caso è ammissibile sia un termine iniziale che un termine finale), mentre ex art. 637 c.c. si considera sempre non apposto il termine, iniziale o finale che sia, alla disposizione a titolo universale, in quanto, come accennato in sede introduttiva, limitare temporalmente lo status di erede comporterebbe la violazione del principio semel heres semper heres.

Questione discussa, infine, come sopra accennato, è quella della ammissibilità o meno di un termine iniziale o finale al diritto di proprietà, dunque, il tradizionale problema della proprietà temporanea, che risulta incompatibile con il carattere della perpetuità del diritto e dunque rischia di costituire una violazione del principio del numerus clausus dei diritti reali, ancora oggi sostenuto dalla dottrina prevalente. Sul punto, è bene distinguere tra termine iniziale e termine finale: il primo, invero, è sicuramente ammissibile, in quanto non pregiudica la perpetuità del diritto, ma determina solo il differimento del momento in cui avviene il trasferimento del diritto da alienante ad acquirente; più discusso, e, secondo l’opinione prevalente, inammissibile è invece l’apposizione di un termine finale al diritto di proprietà, in quanto tutte le ipotesi legislative tradizionalmente individuate dalla dottrina come ipotesi di proprietà temporanea sono, a ben vedere, ipotesi di proprietà non temporanea, ma risolubile (questo è il caso, ad esempio, della sostituzione fedecommissaria, della donazione con patto di riversibilità, della vendita con patto di riscatto o con riserva di proprietà), oppure ipotesi di diritti diversi (questo è il caso della proprietà superficiaria a termine finale, prevista ex art. 952 c.c., che, tuttavia, non è un diritto di proprietà, ma un diritto di superficie anche se osservato nel momento in cui è già stato esercitato lo ius aedificandi, dunque, un diritto reale minore, certamente compatibile con la previsione di un termine finale).

L’onere.

Secondo l’impostazione tradizionale, rientra tra gli elementi accidentali del negozio anche l’onere (o modo), il quale è apponibile a tutti i negozi a titolo gratuito, e a questi soltanto, al fine di prevedere un limite (un modus, appunto) all’attribuzione per cui non è stato previsto un corrispettivo.

La tesi della natura dell’onere come elemento accidentale del negozio, invero, muove proprio dal significato letterale del termine “modus” nel diritto romano, cioè, limite alla liberalità; tuttavia, questa impostazione tradizionale è stata di recente contestata dagli Autori che hanno sostenuto che l’onere ha natura di disposizione autonoma (anche se collegata al negozio principale), con la conseguenza, ad esempio, di ammettere la possibilità di un testamento che sia composto da soli oneri, pur in assenza di ulteriori disposizioni a titolo universale o particolare a cui apporre tali oneri.

Sotto il profilo del contenuto, unico carattere che indefettibilmente l’onere deve rispettare è quello della patrimonialità, che, tuttavia, se manca, può anche essere “ricreata ad hoc” dalle parti, mediante la previsione di una clausola penale per il caso dell’inadempimento dell’onere.