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I concetti di invalidità ed inefficacia del negozio vengono spesso confusi o sovrapposti, in quanto sarebbe spontaneo pensare che un negozio invalido non possa produrre effetti giuridici e, viceversa, che un negozio sia improduttivo di effetti poiché viziato.

Tuttavia, sebbene invalidità ed inefficacia del contratto possano effettivamente coincidere, ciò non è sempre vero, esistendo, da un lato, contratti che, seppur invalidi, producono effetti finché tale invalidità non viene accertata (si pensi al contratto annullabile) e, dall’altro lato, contratti la cui inefficacia temporanea è frutto di una specifica, e lecita, volontà dei contraenti (si pensi al contratto a cui è apposta una condizione sospensiva, prima dell’avveramento della stessa).

Per questo è necessario procedere ad un’analisi separata dei due fenomeni, avendo riguardo ai vari tipi di invalidità, alle cause di invalidità ed inefficacia e, soprattutto, al regime giuridico di ciascun fenomeno.

Fattispecie ancora diversa, poi, è quella dell’inesistenza del contratto, sconosciuta alla disciplina positiva, la cui teorizzazione si deve alla dottrina e alla giurisprudenza, alla quale pure sarà dedicata autonoma analisi.

L’invalidità in generale

È invalido il negozio giuridico che si pone in contrasto con una norma di legge e, per questo, in base al tipo di invalidità da cui è viziato, il negozio è da subito improduttivo di effetti giuridici, oppure li produce in via meramente provvisoria, finché l’invalidità non viene accertata in giudizio.

Come già accennato, l’invalidità si declina della due macrocategoria della nullità e dell’annullabilità, che differiscono sotto il profilo delle cause, nonché della disciplina giuridica e che, per questo, saranno di seguito oggetto di distinta trattazione.

La nullità

La nullità è prevista dall’ordinamento per i vizi più gravi del contratto e del negozio giuridico in generale e costituisce la sanzione civilistica di carattere generale in caso di invalidità del negozio giuridico (l’annullabilità o la rescindibilità, infatti, sono previste, a differenza della nullità, solo per cause specifiche), con le eccezioni del negozio testamentario e del contratto di società in relazione ai quali la causa generale di invalidità è l’annullabilità, essendo previste invece cause tassative di nullità, dagli artt. 606 e 2332 del Codice civile, in ragione, rispettivamente, dell’irripetibilità della volontà del testatore e delle esigenze di tutela dei terzi che operano con la società.

La disciplina della nullità è contenuta negli artt. 1418 e seguenti del Codice civile, ove si legge che “il contratto è nullo quando è contrario a norme imperative, salvo che la legge disponga diversamente.

Producono nullità del contratto la mancanza di uno dei requisiti indicati dall’art. 1325, l’illiceità della causa, l’illiceità dei motivi nel caso indicato dall’art. 1345 e la mancanza nell’oggetto dei requisiti stabiliti dall’art. 1346.

Il contratto è altresì nullo negli altri casi stabiliti dalla legge.”.

L’articolo 1418 del Codice civile, dunque, disciplina fondamentalmente tre macroipotesi di nullità del contratto:

– La contrarietà a norme imperative, cioè la cosiddetta nullità virtuale: il Codice civile non individua espressamente quali norme debbano ritenersi “imperative” e quali altre “dispositive” e dunque derogabili, essendo l’individuazione generalmente rimessa all’interprete;

– Il difetto o l’illiceità di uno o più requisiti essenziali (causa, accordo, oggetto, forma quando richiesta a pena di nullità) o l’illiceità dei motivi quando comuni alle parti (nullità strutturale);

– In tutti gli altri casi previsti dalla legge (cosiddetta nullità testuale).

La legge, dunque, dispone la nullità del contratto per porre dei limiti all’autonomia contrattuale riconosciuta alle parti ex art 1322 del Codice civile. I contraenti, infatti, non possono sottrarsi al rispetto di quei principi generali che la legge prevede per rendere certi i rapporti giuridici o comunque a presidio di interessi ritenuti superiori rispetto alla mera volontà delle parti.

Stante la gravità del vizio, il contratto nullo è affetto da un vizio genetico (o, come si suole dire in gergo atecnico, “il contratto nasce già morto”), dunque, la sentenza del giudice che accoglie la domanda di nullità ha natura dichiarativa, in quanto non modifica la realtà giuridica, ma si limita ad accertare una realtà già esistente.

Ai sensi dell’articolo 1421 del Codice civile “salvo diverse disposizioni di legge, l’azione di nullità può essere fatta valere da chiunque vi ha interesse e può essere rilevata d’ufficio dal giudice”, per questo si parla di legittimazione assoluta: possono invocare la nullità del contratto, dunque, non solo le parti che lo hanno posto in essere, ma anche soggetti esterni allo stesso che vi abbiano interesse, cioè coloro che, a causa del contratto nullo, abbiano subito la lesione di un proprio diritto e può, inoltre, essere rilevata d’ufficio dal giudice in ogni stato e grado del giudizio.

Alcune eccezioni al principio della legittimazione assoluta sono, tuttavia, previste dalle leggi speciali che dispongono delle cause di cosiddetta nullità relativa, così definita proprio in quanto può essere fatta valere soltanto dal soggetto nel cui interesse è sancita: emblematico esempio è quello della nullità prevista dal Codice del consumo in caso di inserimento nel contratto di clausole vessatorie, che può essere fatta valere soltanto dal consumatore.

La gravità del vizio che determina la nullità, inoltre, comporta, in questo caso, una coincidenza tra invalidità ed inefficacia del negozio: il contratto nullo, infatti, non produce effetti fra le parti ed è come se non fosse stato mai stipulato (fanno eccezione il contratto di lavoro subordinato nullo e la nullità del contratto di società, ai quali, in ragione degli interessi particolarmente meritevoli di tutela che vengono in rilievo, gli artt. 2126 e 2332 del Codice civile ricollegano dei mitigati effetti).

La nullità può investire l’intero contratto oppure singole clausole. In caso di nullità parziale, tuttavia, non sempre la nullità della clausola si estende all’inero contratto e, in alcuni casi, la stessa clausola nulla, invece di essere meramente espunta dal negozio, viene sostituita automaticamente da una previsione legale (così l’art. 1419, comma 2 del Codice civile).

Salvo casi eccezionali (si vedano, a titolo di esempio, gli artt. 590 e 799 del Codice civile, che prevedono la conferma, rispettivamente, di disposizioni testamentarie e donazioni nulle) il contratto nullo non può essere convalidato, ma può convertirsi, ai sensi dell’articolo 1424 del Codice civile, in un diverso contratto valido qualora “contenga i requisiti di sostanza e di forma” di quest’ultimo: è il caso, ad esempio, il caso della locazione di un immobile conclusa senza la previsione di un canone, che si può convertire, per volontà delle parti, in contratto di comodato.

Una disciplina specifica è poi prevista nel caso in cui la nullità riguardi un contratto plurilaterale, come corollario del principio generale di conservazione dei contratti. In tal caso, ai sensi dell’art. 1420 del Codice civile, “la nullità che colpisce il vincolo di una sola delle parti non importa nullità del contratto, salvo che la partecipazione di essa debba, secondo le circostanze, considerarsi essenziale”.

Ai sensi dell’articolo 1422 del Codice civile “l’azione per far dichiarare la nullità non è soggetta a prescrizione.

Questa norma deve però contemperarsi con la disciplina dell’usucapione, come acquisto di un bene a titolo originario (senza acquistare, ma possedendo), nonché con la disciplina della cosiddetta pubblicità sanante, di cui all’art. 2652 n. 6 del Codice civile che, in presenza di tutti i requisiti previsti dalla norma fa salvi gli effetti dell’acquisto del terzo avente causa da colui che aveva acquistato in forza di negozio nullo.

L’annullabilità

L’istituto dell’annullamento del contratto ricorre in caso di contratti affetti da un vizio meno grave di quello che ne cagiona la nullità e trova la propria fonte agli articoli 1441 e seguenti del Codice civile: la prima norma citata sancisce la legittimazione relativa a fare valere l’annullabilità del contratto, prevedendo che “l’annullamento del contratto può essere domandato solo dalla parte nel cui interesse è stabilito dalla legge”: riemerge invece la legittimazione assoluta qualora l’annullabilità derivi da incapacità del condannato in stato di interdizione legale.

Come sopra accennato, l’annullamento, a differenza della nullità, è un rimedio di carattere speciale, determinato, fondamentalmente da due categorie di vizi, concernenti la capacità (incapacità legale o naturale, cioè, incapacità di intendere e di volere del contraente che, a differenza dell’incapacità legale deve essere provata da chi agisce per l’annullamento) o la volontà delle parti (viziata se affetta da errore, violenza o dolo).

Per determinare l’annullabilità del contratto l’art. 1428 stabilisce come l’errore debba essere “essenziale” e “riconoscibile” agli altri contraenti e per essere essenziale l’errore deve, ai sensi dell’art. 1429 del Codice civile:

– Cadere sulla natura o sull’oggetto del contratto;

– Cadere sull’identità dell’oggetto della prestazione ovvero sopra una qualità dello stesso che, secondo il comune apprezzamento o in relazione alle circostanze, deve ritenersi determinante del consenso;

– Avere come oggetto la qualità o qualità dell’altro contraente ove le stesse siano state determinanti del consenso;

– Se errore di diritto, essere la ragione principale del contratto.

Ai sensi dell’art. 1434 del Codice civile, la violenza causa l’annullamento del contratto anche se esercitata da un terzo e deve “far temere una persona sensata di esporre sé o i suoi beni ad un male ingiusto e notevole”; parimenti determina l’annullabilità del contratto la violenza diretta contro a terzi o a loro beni, ove tali terzi siano ascendenti, discendenti o il coniuge del contraente.

Da ultimo, ai sensi dell’art. 1439 del Codice civile il dolo è causa di annullamento quando “i raggiri usati da uno dei contraenti sono stati tali che, senza di essi, l’altra parte non avrebbe contrattato”: in questo caso il dolo viene definito “determinante”. Viceversa, il dolo non causa l’annullamento del contratto quando “incidente”, definito dall’art. 1440 del Codice civile come raggiri che non siano stati tali “da determinare il consenso”: in questo caso la condotta del contraente “raggirante” dà luogo soltanto al risarcimento del danno.

A differenza dell’azione di nullità, l’azione di annullamento ha natura costitutiva, in quanto la sentenza del giudice che la accoglie modifica la realtà giuridica, eliminando, seppur con efficacia retroattiva, gli effetti già prodotti dal negozio: prima della pronuncia del giudice, dunque, il contratto è meramente “annullabile”, ma è la sentenza a renderlo “annullato”.

Il termine di prescrizione per attivare l’azione di annullamento per incapacità legale è di cinque anni e decorre, ai sensi dell’articolo 1442 del Codice civile, dalla cessazione dello stato di incapacità legale o naturale, o dal momento in cui è cessata la violenza, è stato scoperto l’errore o il dolo.

L’inefficacia in generale

Il termine inefficacia si limita a descrivere una situazione di fatto, tale per cui il negozio giuridico non produce effetti, senza nulla aggiungere in merito alla natura patologica (nullità o annullamento), ovvero fisiologica (contratto a cui è apposto, per legge, o per volontà delle parti, un elemento accidentale, che differisce nel tempo gli effetti del negozio) della stessa.

Dell’inefficacia derivante da una patologia del negozio si è già detto, quindi, d’ora in avanti ci si concentrerà sull’inefficacia derivante da cause esterne ad un negozio completo di tutti i requisiti legali e non contrastante con alcuna norma giuridica.

Gli elementi o le situazioni che rendono inefficace un contratto valido possono essere diverse, tra cui, per importanza, si ricordano:

Termini e condizioni (legali o volontarie): se le parti hanno stabilito che gli effetti del contratto si verificheranno a partire da, o fino ad una certa data (il termine ha ad oggetto, infatti, un evento futuro e certo) oppure al verificarsi o meno di un determinato avvenimento (la condizione ha ad oggetto un evento futuro ed incerto), dunque, il contratto avrà efficacia differita (in pendenza di termine iniziale o condizione sospensiva) o efficacia temporanea (in pendenza di termine finale o condizione risolutiva);

Simulazione assoluta del contratto: si verifica quando le parti hanno stipulato un contratto ma hanno anche deciso preventivamente, con un accordo a latere (accordo simulatorio), che i suoi effetti non dovranno in realtà mai verificarsi inter partes, così determinando un’inefficacia definitiva (ancorché limitata ai rapporti tra le parti) del contratto.

Si precisa, comunque, che in tali casi, in cui l’inefficacia non dipende dall’invalidità del contratto, non solo quest’ultimo è destinato a produrre effetti (ad esempio, dopo l’avveramento della condizione sospensiva o del termine iniziale), ma l’ordinamento consente la produzione di determinati, limitati, effetti anche durante la pendenza del termine o della condizione.

In particolare, il legislatore disciplina espressamente il periodo di pendenza della condizione agli artt. 1356 e seguenti del Codice civile. in particolare, ai sensi della prima norma, “in pendenza della condizione sospensiva l’acquirente di un diritto può compiere atti conservativi. L’acquirente di un diritto sotto condizione risolutiva può, in pendenza di questa, esercitarlo, ma l’altro contraente può compiere atti conservativi”.

Prevede, poi, l’art. 1357 del Codice civile la possibilità per l’acquirente di diritti a condizione risolutiva o sospensiva di porre in essere, durante la pendenza della condizione, atti dispositivi del diritto in oggetto, ma precisando che gli effetti di ogni atto di disposizione sono “subordinati alla stessa condizione”.

Gli atti dispositivi in questione sono, dunque, negozi commutativi, a cui è apposta una condizione, individuata per relationem al negozio principale, in ciò distinguendosi dai negozi dispositivi dell’aspettativa (situazione giuridica di “diritto al diritto” di cui è titolare colui che acquisterà definitivamente il diritto all’avverarsi della condizione sospensiva o risolutiva), cioè negozi aleatori, che rimangono in piedi a prescindere dall’avveramento o dalla mancanza della condizione, l’alea dell’avveramento della quale è dunque in questo caso sopportata dal cessionario.

L’art. 1358 del Codice civile, poi, sancisce l’obbligo delle parti di comportarsi secondo buona fede durante la pendenza della condizione, al fine di conservare integre le ragioni della controparte, che comporta, in caso di violazione, una responsabilità risarcitoria.

Da ultimo, l’art. 1360 del Codice civile sancisce la cosiddetta retroattività reale (che travolge, cioè, anche i diritti medio tempore acquistati dai terzi aventi causa) dell’avveramento o della mancanza della condizione ed in particolare prevede che “Gli effetti dell’avveramento della condizione retroagiscono al tempo in cui è stato concluso il contratto, salvo che, per volontà delle parti o per la natura del rapporto, gli effetti del contratto o della risoluzione debbano essere riportati a un momento diverso.
Se però la condizione risolutiva è apposta a un contratto a esecuzione continuata o periodica, l’avveramento di essa, in mancanza di patto contrario, non ha effetto riguardo alle prestazioni già eseguite”.

Ancora diversa è la cosiddetta inefficacia relativa del negozio, prevista dal legislatore in alcune ipotesi tassative, che consiste nella inopponibilità a specifici soggetti di un negozio che è, per il resto, assolutamente valido ed efficace: si pensi, ad esempio, alla vendita di un bene che è stato oggetto di sequestro conservativo, che, ex art. 2906 del Codice civile, “non ha effetto in pregiudizio del creditore sequestrante”.

L’inesistenza

A stretto rigore, se, come detto, il negozio nullo si considera tamquam non esset, non si dovrebbe distinguere tra negozio nullo ed inesistente, in quanto entrambi i fenomeni (nullità e inesistenza) riguarderebbero un negozio affetto da un vizio genetico che lo rende del tutto inidoneo a produrre effetti giuridici: è stato, infatti, affermato in dottrina che, se il negozio giuridico è la manifestazione di volontà diretta alla produzione di effetti voluti dalle parti e riconosciuti dall’ordinamento, quando tale manifestazione di volontà non può produrre effetti, non è neanche qualificabile come negozio.

Tuttavia, la prevalente dottrina e la giurisprudenza tengono distinte le due figure dell’invalidità e dell’inesistenza, definendo quest’ultima come la fattispecie non semplicemente viziata, ma che difetta del tutto dei requisiti minimi perché si possa affermare l’esistenza di un negozio giuridico, ancorché nullo. Ad esempio, sarebbe inesistente il negozio non manifestato neanche oralmente, ma rimasto nel pensiero del contraente, oppure il negozio concluso per scherzo, a scopo rappresentativo o didattico.

A tale distinzione, tra l’altro, gli Autori ricollegano importanti conseguenze pratiche, in quanto, a differenza del negozio nullo, il negozio inesistente:

– Non può essere convertito;

– Non può essere sanato (neppure nei casi eccezionali in cui la legge prevede tale possibilità per il negozio nullo);

– Non può essere trascritto (e dunque non possono neanche mai prodursi gli effetti della cosiddetta pubblicità sanante, di cui sopra).

Se, pertanto, si ritiene, da un lato, di dover riconoscere dignità dogmatica alla categoria giuridica dell’inesistenza, autonoma rispetto a quella della nullità, si rileva, dall’altro lato, che la legge spesso non fornisce elementi sufficienti per determinare quando un negozio sia inesistente: si pensi, ad esempio, al testamento nuncupativo (cioè, reso in forma orale), considerato da alcuni un testamento nullo, e da altri radicalmente inesistente, facendo leva sul principio del formalismo, che caratterizza l’intera disciplina del negozio testamentario.