Ipotesi e disciplina
Il contratto di società (art. 2247 del Codice civile) è un contratto plurilaterale, nel quale lo scioglimento del singolo rapporto sociale, cioè la fuoriuscita del singolo socio dalla società, non comporta mai lo scioglimento della stessa, nemmeno qualora si dovesse considerare “essenziale” la partecipazione del socio in questione, in deroga a quanto previsto dall’art. 1420 del Codice civile.
Tale deroga al diritto comune, invero, è giustificata dalla rilevanza reale meta individuale della società, quale autonomo soggetto di diritto che opera nel mercato interfacciandosi con i terzi, il cui affidamento sarebbe dunque violato se la società venisse meno ad ogni modifica soggettiva della compagine sociale.
Ad ogni modo, si sottolinea come in alcuni tipi sociali e, segnatamente, nelle società di persone la persona del singolo socio acquisti una rilevanza maggiore di quella che ricopre nelle società di capitali, con la conseguenza che, nelle prime, ogni mutamento soggettivo richiede la modifica dei patti sociali, necessariamente all’unanimità ex art. 2252 del Codice civile (salvo che i patti sociali medesimi prevedano che sia sufficiente la maggioranza), mentre nelle seconde i nomi dei soci non sono mai menzionati nello statuto, che dunque rimane immutato in caso di modifiche della compagine sociale.
Le ipotesi di scioglimento del singolo rapporto sociale
Poste queste generali premesse, si osserva che il Codice civile prevede tre fondamentali ipotesi di scioglimento del singolo rapporto sociale, che saranno analizzate appresso: la morte, il recesso e l’esclusione.
La morte del socio.
La morte del socio costituisce solitamente una causa di scioglimento del rapporto sociale soltanto nelle società di persone, non invece nelle società di capitali, le cui partecipazioni circolano liberamente sia inter vivos che mortis causa.
Invero, in materia di società di persone, ai sensi dell’art. 2284 del Codice civile, “[…] in caso di morte di uno dei soci, gli altri devono liquidare la quota agli eredi […]”, con la precisazione che, secondo dottrina ormai unanime, la liquidazione non è a carico dei soci superstiti, ma della società, spiegandosi il diverso dato letterale con la circostanza che, quando il Codice è entrato in vigore, nel 1942, era prevalente l’opinione che negava alle società di persone la soggettività giuridica, che oggi è pacificamente riconosciuta.
Tuttavia, il richiamato articolo è chiaro nell’affermare sia che i soci superstiti possono, in alternativa scegliere di sciogliere la società o di continuarla con gli eredi del defunto (se costoro vi acconsentono), sia che le conseguenze della morte di uno dei soci siano diversamente disciplinate ex ante dai patti sociali, potendo questi prevedere clausole di liquidazione obbligatoria, di accrescimento impuro (unico caso in cui la liquidazione della quota del socio defunto è pagata dai soci superstiti), di scioglimento obbligatorio o di continuazione facoltativa, obbligatoria o automatica.
Del pari, clausole statutarie derogatorie rispetto alla disciplina legale della libera trasferibilità possono essere previste anche negli statuti delle società di capitali, che possono prevedere, ad esempio, un divieto di trasferimento mortis causa, o un gradimento mero o non mero in caso di trasferimento mortis causa e, in generale, tutti i limiti alla circolazione che possono essere previsti con riferimento ai trasferimenti inter vivos, con la precisazione che, in caso di limite alla circolazione a causa di morte, deve sempre essere previsto il correttivo della liquidazione della quota ai successori al valore di recesso, determinato come esposto nel prossimo paragrafo, dedicato alla liquidazione della quota del socio uscente.
Il recesso del socio.
Il recesso è un negozio giuridico dismissivo dello status socii, unilaterale, recettizio verso la società e non formale.
Si precisa, poi, che, sebbene ciò sia espressamente previsto per la sole società azionarie, è oggi prevalente la tesi dell’ammissibilità in tutte le società, di persone e di capitali, del recesso parziale, avente, cioè, ad oggetto solo una parte della partecipazione.
La dottrina notarile individua, poi, diversi tipi di recesso:
1) Recesso ad nutum: si tratta di un recesso esercitabile in qualsiasi momento, con il solo onere di rispettare un termine di preavviso e spetta per legge in caso di società, di persone o di capitali, contratte a tempo indeterminato. La dottrina si è interrogata sulla possibilità che tale tipo di recesso sia convenzionalmente previsto anche nelle società a tempo determinato, essendo, secondo l’opinione maggioritaria, ciò non possibile nelle società azionarie (in quanto l’art. 2437 del Codice civile fa espresso riferimento alle “cause” per cui può essere esercitato il recesso) e possibile nelle s.r.l. (in quanto l’art. 2473 del Codice civile prevede genericamente che lo statuto prevede “quando” può essere esercitato il recesso, come a voler indicare che tale diritto può spettare anche in assenza di specifica causa);
2) Recesso per giusta causa: tale recesso opera per legge nelle società di persone ex art. 2285 comma 2 del Codice civile, mentre è considerato inammissibile nelle società di capitali (la tesi dell’ammissibilità è, tuttavia, stata sostenuta da un’isolata massima del Consiglio Notarile di Milano, la n. 74). È, tuttavia, discusso cosa debba intendersi per “giusta causa”, essendo sul punto state elaborate due teorie, una soggettiva, secondo cui la giusta causa dovrebbe consistere in circostanze riguardanti gli altri soci o condizioni soggettive del socio recedente che non gli consentono di continuare ad essere socio, ed una oggettiva, che sostiene che il recesso debba sempre fondarsi su circostanze oggettive che abbiano determinato l’impossibilità di proseguire il rapporto sociale;
3) Recesso statutario (o previsto dai patti sociali): lo statuto delle società di capitali e i patti sociali delle società di persone sono infatti liberi di individuare circostanze specifiche che legittimano il recesso del socio;
4) Recesso legale: tale recesso spetta per legge ai soci che non hanno concorso a determinate decisioni, individuate dal Codice o dalle leggi speciali (come il recesso previsto in caso di arbitrato societario ex art 838-bis ultimo comma del Codice di procedura civile) e, in particolare, spetta, nelle società di persone, in caso di operazioni straordinarie (trasformazione, fusione o scissione) approvate a maggioranza e, nelle società di capitali, qualora siano approvate le decisioni di cui agli artt. 2437 commi 1 (cause legali inderogabili) e 2 (cause legali derogabili) e 2473 comma 1 del Codice civile.
Diverso è, invece, il cosiddetto recesso convenzionale, o exit concordato, che consiste in un vero e proprio contratto (tra tutti i soci di una società di persone o tra socio e società di capitali) avente ad oggetto la cessazione della partecipazione di uno dei soci pur in assenza dei presupposti del recesso: tale accordo, si precisa, fa sorgere in capo al socio uscente il medesimo diritto alla liquidazione della quota che spetta al socio receduto.
Sotto il profilo dell’efficacia, nelle società di persone, il recesso è sempre immediatamente efficace, tranne nel caso di recesso ad nutum, che produce effetti dal momento in cui decorre il termine di preavviso, mentre nelle società di capitali il momento a partire dal quale il recesso produce effetti è questione tradizionalmente dibattuta, essendo discusso se la liquidazione della quota del recedente nei termini e modalità di cui infra costituisca condizione sospensiva o risolutiva del recesso.
Pertanto, con riferimento alle società di capitali, sorge il problema di delineare lo status del socio receduto in pendenza della detta condizione e i diritti a lui spettanti. Invero, se si accoglie la tesi della condizione sospensiva, fino al momento della liquidazione della quota, il recedente sarà a tutti gli effetti socio, avendo, dunque, il diritto di intervenire e vitare in assemblea; viceversa, seguendo la tesi, oggi forse prevalente, della natura risolutiva della condizione della liquidazione, il recedente fin da subito perde lo status socii e i diritti ad esso connessi, quindi, non può intervenire né votare in assemblea e non viene, quindi, il recedente viene calcolato ai fini del quorum costitutivo, ma non di quello deliberativo dell’assemblea, in quanto titolare di azioni con diritto di voto temporaneamente sospeso, ex art. 2368 comma 3 del Codice civile.
L’esclusione del socio.
L’esclusione del socio è un istituto previsto nelle sole società di persone e nelle s.r.l., non invece nelle società azionarie, cosa che si spiega alla luce della minore rilevanza della persona del socio in queste ultime, rispetto che nelle prime.
Nelle società di persone, l’esclusione del socio può essere facoltativa, ovvero operare di diritto: la prima è prevista dall’art. 2286 del Codice civile per il caso di gravi inadempienze, impossibilità (imputabile al socio) di conseguire il conferimento e interdizione o inabilitazione, mentre la seconda è prevista dall’art. 2288 del Codice civile, per il caso in cui il socio sia soggetto a liquidazione giudiziale ovvero, per un creditore personale del socio abbia richiesto la liquidazione della sua quota ex art. 2270 del Codice civile (possibilità, quest’ultima, ammissibile nelle sole società semplici e s.n.c. irregolari).
Nelle s.r.l., invece, l’esclusione può essere prevista dallo statuto ex art. 2473-bis del Codice civile, per “specifiche” cause, essendo dunque inammissibile l’esclusione per una generica “giusta causa”, oppure può avvenire in conseguenza della mora del socio, qualora non sia stato possibile vendere agli altri soci o a terzi la sua quota, ex art. 2466 comma 3 del Codice civile.
In caso di esclusione per causa prevista dallo statuto, la competenza all’esclusione spetta, nel silenzio, all’assemblea dei soci, mentre l’esclusione del socio moroso è decisa, per espressa previsione del citato art. 2466 del Codice civile, dagli amministratori.
Tali due fattispecie di esclusione, ad ogni modo, differiscono tra loro, soprattutto, sotto il profilo delle conseguenze dell’esclusione stessa.
Invero, in caso di esclusione statutaria, il socio escluso ha diritto alla liquidazione della quota al valore di recesso, che deve essere effettuata mediante lo stesso procedimento previsto per la liquidazione della quota del socio receduto, ma con la differenza che, come prevede espressamente l’art. 2473-bis del Codice civile, è “esclusa la possibilità di rimborso della partecipazione mediante riduzione del capitale sociale” (che costituisce, invece, l’ultimo, eventuale, step del procedimento volto alla liquidazione del socio receduto).
Tuttavia, secondo consolidata dottrina, qualora l’esclusione sia stata causata dall’inadempimento di uno specifico obbligo sociale, può essere prevista a cario del socio escluso una penale, che può consistere anche nella riduzione del valore di liquidazione della quota, addirittura fino ad azzerarlo.
Viceversa, in caso di esclusione per mora, il citato art. 2466 comma 3 del Codice civile dispone che “gli amministratori escludono il socio, trattenendo le somme riscosse. Il capitale deve essere ridotto in misura corrispondente”; pertanto, da un lato, in questo caso, nulla spetta al socio escluso a titolo di liquidazione, e, dall’altro lato, l’esclusione comporta sempre, e necessariamente, la riduzione del capitale sociale per un importo pari all’intera partecipazione detenuta dall’escluso.
Segue: quid iuris in caso di concorrenza di più possibili cause di esclusione del socio?
Stante la diversità di presupposti dell’esclusione statutaria e dell’esclusione per mora, dunque, è possibile che lo stesso socio sia passibile di esclusione per più di una causa, il che si verifica quando tale socio sia ha realizzato la condotta per la quale lo statuto prevede l’esclusione, sia non ha effettuato i versamenti dovuti a titolo di conferimento e non sono stati trovati acquirenti per la sua partecipazione.
In questo caso, nel silenzio della legge, deve ragionevolmente ritenersi che sia la società e, nello specifico, gli amministratori a decidere se procedere con l’esclusione statutaria o con quella per mora, con le conseguenze che ne discendono.
Si ritiene, ad ogni modo, che, qualora ricorrano i presupposti di entrambe le ipotesi di esclusione, appare maggiormente ragionevole riconoscere la prevalenza della causa legale di esclusione, estromettendo dunque il socio ex art. 2466 del Codice civile, senza rimborsargli alcunché e con corrispondente riduzione del capitale sociale.
Invero, la via dell’esclusione statutaria, con conseguente liquidazione della quota al socio escluso potrebbe apparire preferibile solo nel caso in cui la società avesse uno specifico interesse a mantenere immutato l’ammontare del capitale sociale e, per assenza di riserve ed altri fondi disponibili, non fosse possibile realizzare il medesimo risultato mediante una doppia e contestuale operazione sul capitale, per tale intendendosi una riduzione del capitale per mora, seguita subito dopo da un aumento gratuito del capitale di pari importo.
La liquidazione della quota del socio uscente
Fermo quanto sopra osservato con riguardo alle singole cause di scioglimento del rapporto sociale, in via conclusiva, si osserva che tutte le fattispecie in esame, a prescindere dal fatto che si verifichino in una società di persone o di capitali, sono accomunate dalla circostanza che lo scioglimento del rapporto sociale comporta la liquidazione della quota del socio al valore reale (o valore effettivo): tale principio, invero, conosce un’unica deroga, sopra ricordata, prevista dall’art. 2466 del Codice civile, laddove dispone che, in caso di esclusione del socio di s.r.l. per mora e conseguente riduzione del capitale sociale, quanto già versato dal moroso è trattenuto dalla società ed all’ex socio nulla deve essere corrisposto.
Al di fuori di questa peculiare ipotesi, tuttavia, il procedimento che porta alla liquidazione della quota del socio uscente differisce in base al fatto che la società in questione sia una società di persone o di capitali.
Nel primo caso, il Codice civile non disciplina una specifica procedura da seguire, essendo quindi rimessa alla discrezionalità dei soci rimanenti la scelta in ordine alla modalità del rimborso. Sul punto, si precisa soltanto che in caso di esclusione ex art. 2286 del Codice civile del socio di una società composta da due soli soci la decisione non è rimessa, come nel caso di società pluripersonale agli altri soci, ma al Tribunale, su istanza dell’altro socio. Ad ogni modo, si osserva che la liquidazione avviene solitamente in denaro, essendo ammissibile la liquidazione in natura solo con il consenso unanime dei soci, mediante utilizzo di riserve, ovvero riduzione del capitale sociale.
Sul punto, si osserva che la liquidazione può certamente essere contestuale allo scioglimento del singolo rapporto sociale quando effettuata tramite riserve. Viceversa, qualora la società proceda mediante riduzione del capitale sociale, è discusso se tale operazione sia immediatamente efficace, ovvero lo sia solo dopo il decorso del termine di novanta giorni senza opposizione dei creditori sociali ex art. 2306 del Codice civile; accogliendo la prima impostazione, la liquidazione del socio uscente potrà essere disposta subito, mentre seguendo la seconda teoria il socio potrà essere liquidato solo dopo l’inutile decorso del termine per l’opposizione.
Sebbene si tratti di questione ad oggi controversa, appare opinione ragionevole e condivisibile quella di coloro che in relazione all’applicabilità o meno dell’opposizione ex art. 2306 del Codice civile, operano una distinzione: qualora la società abbia riserve, ma scelga comunque di liquidare il socio uscente riducendo il capitale, si tratterà di una riduzione reale e volontaria, pertanto, senza dubbio soggetta ad opposizione dei creditori sociali; viceversa, qualora la società non abbia riserve, la riduzione, ancorché reale, è obbligatoria e, proprio per questo, non vi sarebbe spazio per l’opposizione dei creditori.
Nelle società di capitali, invece, è il Codice civile a prevedere un procedimento che la società deve necessariamente seguire al fine di liquidare la partecipazione del socio receduto o escluso: sul punto, si vedano gli artt. 2437-quater, 2473 e 2473-bis (che rinvia al precedente art. 2473) del Codice civile.
Come sopra osservato, poi, la partecipazione del socio uscente deve essere liquidata al valore effettivo, o valore reale, della stessa nel momento in cui si verifica lo scioglimento del rapporto sociale. In altre parole, ai fini della liquidazione assume rilievo, esclusivamente, il valore della partecipazione determinato sulla base del patrimonio sociale, non invece il valore nominale della stessa, cioè il valore determinato sulla base del capitale sociale.
Tale valore è determinato, nelle società di persone, per accordo unanime dei soci, mentre nelle società di capitali è il Codice civile ad individuare i criteri per la determinazione del valore di liquidazione della quota (artt. 2437-ter e 2473 del Codice civile), che tiene conto “della consistenza patrimoniale della società e delle sue prospettive reddituali, nonché dell’eventuale valore di mercato delle azioni (o quote)”.
Sul punto, si precisa, da ultimo, che, nelle società azionarie, tale valore è determinato in un momento precedente a quello dell’esercizio del diritto di recesso, quindi, il socio recedente, nell’esercitare il recesso “presta quiescenza” al valore di liquidazione delle azioni, come determinato dagli amministratori; viceversa, nelle s.r.l., il valore di liquidazione della quota in caso di recesso o di esclusione statutaria è determinato in un momento successivo a quello in cui il recesso è esercitato o l’esclusione deliberata, pertanto, è prevista la possibilità per il socio receduto o escluso che non concordi con il valore di liquidazione della quota determinato dagli amministratori di chiedere che la determinazione sia “compiuta tramite relazione giurata di un esperto nominato dal tribunale, che provvede anche sulle spese, su istanza della parte più diligente; si applica in tal caso il primo comma dell’articolo 1349” ex art. 2473 comma 3 del Codice civile.